Ci sono storie senza tempo, che ciclicamente ritornano sotto nuove forme perché parlano a tutte le generazioni. Una di queste è sicuramente Il Conte di Montecristo il celebre romanzo di Alexandre Dumas. Dopo aver assistito durante le festività natalizie 2024 all'arrivo su Mediaset del film di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte presentato a Cannes e suddiviso in tv in due parti, ora il 2025 è pronto ad accogliere sulla concorrente Rai un'altra versione, più recente.
Questa volta una serie in otto episodi diretti dal Premio Oscar e Palma d'Oro Bille August. Dopo un'altra anteprima, in questo caso alla Festa del Cinema di Roma, la serie approda per quattro settimane ogni lunedì in prima serata su Rai1.
Il Conte di Montecristo: Feuilleton, mio feuilleton
La miniserie Rai ha tutte le caratteristiche delle sue co-produzioni internazionali in costume. L'originale cartaceo, come altre su opere tra cui I tre moschettieri, si iscrive tra i romanzi d'appendice ovvero quelle avventure ricche di colpi di scena e intrighi scritte per essere lette a puntate, nelle ultime pagine dei quotidiani, mantenendo viva la suspense. Forse è proprio per questo motivo che l'adattamento televisivo è quello che segue più pedissequamente il materiale originario. Ha un più ampio spazio rispetto ad una pellicola in cui muoversi, senza togliere nulla o quasi e procedendo di capitolo in capitolo.
La storia è presto detta: ingiustamente accusato di tradimento verso la patria e di essere vicino a Napoleone, il giovane marinaio Edmond Dantès viene imprigionato senza processo nel Castello d'If, una cupa isola-fortezza a largo di Marsiglia. L'uomo è appena rientrato da un'importante spedizione in conseguenza della quale è divenuto capitano, una carica che il secondo in comando gli invidia e per la quale lo fa arrestare sotto falsa accusa, con la complicità di alcuni. Dopo ben quindici anni di prigionia e l'aiuto dell'Abate Foria conosciuto in carcere, Dantes riesce finalmente a scappare. Assumendo l'identità del Conte del titolo, mette in atto la sua vendetta contro coloro che lo hanno privato della libertà, della donna amata, della famiglia e di tutto ciò che gli era più caro.
Un ensemble a regola d'arte
Il cast de Il conte di Montecristo pesca a piene mani tanto dall'internazionale quanto dal territorio nostrano a favore della co-produzione in essere: protagonista assoluto - pur in una storia molto corale - è Sam Claflin che convince con il proprio fascino e carisma nei panni del protagonista, compreso lo sguardo costantemente sofferto e machiavellico di chi ha un piano in atto e non riesce a fermarsi fino alla fine.
Accanto a lui Ana Girardot nei panni di Mercedes, la promessa sposa che gli viene portata via e che nel frattempo, come molti, si è rifatta una vita convinta della sua morte. E ancora Jeremy Irons che impreziosisce il racconto nei panni del "compagno di prigionia" del marinaio, Mikkel Boe Følsgaard, Blake Ritson, Karla-Simone Spence nei ruoli dei suoi aguzzini e infine gli italiani Michele Riondino, Lino Guanciale, Gabriella Pession e Nicolas Maupas nella veste di alleati del protagonista.
Forma o contenuto per la serie Rai?
Quella della serie evento è sicuramente una storia di vendetta, forse la più grande mai raccontata come l'ha definita in conferenza stampa il regista Bille August. Proprio quest'ultimo dona una cura formale forse eccessiva alla miniserie, guidando la macchina da presa con un ritmo sostenuto e compassato, che ricorda i period drama di un tempo - aiutato da scenografia, costumi, fotografia e musiche - e non guarda troppo all'oggi rispetto al contenuto.
Quest'ultimo ci ricorda invece, a livello di tematiche, come invidia e gelosia siano un binomio pericoloso e spesso molto meno soddisfacente di quanto si pensi, pronto a ritorcersi contro chi lo mette in atto. D'altronde, come diceva Confucio, "Prima di intraprendere la strada della vendetta, bisogna scavare due fosse".
Conclusioni
Il Conte di Montecristo è una miniserie che sente il peso degli anni che passano e non riesce ad affrancarsi completamente dal proprio essere tanto senza tempo nel contenuto quanto datata nella messa in scena e nella scrittura farraginosa; pur se estremamente fedele al romanzo di Dumas ed aiutata dall’avere a disposizione otto episodi invece di due ore di pellicola. Sam Claflin convince, guidando un cast in parte, anche se affaticato dal ritmo, e ci sentiamo di premiare la cura formale delle maestranze coinvolte. Tutto sta nel cosa cercate: una rilettura moderna ed avvincente che tradisce l’originale oppure un prodotto di stampo più classico ma rispettoso, che si prende il proprio tempo? Traduzione o tradizione?
Perché ci piace
- La fedeltà al romanzo.
- La cura tecnica.
- Il cast.
Cosa non va
- Il ritmo estremamente compassato.
- La regia certosina ma un po' troppo di maniera.
- Un prodotto che può risultare faticoso per il pubblico di oggi.