"La storia di un mistero... Il mistero di un mondo all'interno di altri mondi... Che si svela intorno a una donna... Una donna innamorata e in pericolo". La sinossi che presentava Inland Empire alla 63esima Mostra di Venezia è particolarmente stringata ma anche incredibilmente esaustiva. Inland Empire (possibile conclusione di un ideale dittico dedicato alle strade hollywoodiane?) è comunque anche il sintomo definitivo del pericolo che il cinema sta correndo inerpicandosi continuamente lungo un Viale del tramonto dove dalle scale di una civiltà in decadenza potranno scendere solo nuovi stimoli. Perché la morte dei sistemi tradizionali di ripresa (David Lynch ha giurato che non girerà mai più su pellicola) aiutano a rafforzare le "analogie" tra finzione e realtà, portando a definitivo compimento la saturazione del concetto di cine-occhio vertoviano. L'utilizzo di una Sony DSR-PD150 ha consentito a Lynch di ottenere esiti strabilianti nella resa luminosa, grazie all'estrema permeabilità delle immagini digitali in grado di garantire al regista del Montana la tipica simbiosi dissociativa tra spazio e tempo. Lynch grazie alla nuova tecnologia è riuscito così a "morfizzare" al meglio le sue idee, incarnate da sempre nei corpi, negli oggetti e negli ambienti delle sue opere.
E pensare che le basi di Inland Empire non erano certo quelle che si gettano per un film vero e proprio. Infatti Lynch, sperimentando la versatilità del nuovo supporto tecnologico, aveva creato una serie di sequenze non correlate tra loro, "girando" in partenza la scena (che vedremo più o meno a metà film) in cui avviene il colloquio tra Laura Dern e lo psichiatra silenzioso. Poi arrivò l'idea del titolo che fu la stessa Dern a fornire al regista durante una conversazione. L'attrice stava spiegando a Lynch che il marito proveniva, appunto, da Inland Empire, un quartiere ad est di Los Angeles. Lynch rimase estasiato nell'udire quelle due parole ("impero interiore") e decise di chiamare così il nuovo film.
Girato tra Polonia (Łódź) e Stati Uniti (Los Angeles e dintorni), Inland Empire è da considerarsi come un vero e proprio work in progress, dove sono le immagini a creare praticamente lo script. Lynch aggiornava continuamente i copioni, approntando delle copie giornaliere che forniva agli attori nel corso della mattinata. Questo fatto ha spiazzato non poco la "factory" lynchiana, in particolare Justin Theroux che dichiarò nel corso delle riprese di non aver la minima idea su come potrebbe risultare il film una volta terminato. Quella che quindi potrebbe apparire come una furba approssimazione è in realtà la vera forza strutturale, oltre che visiva, della costruzione "pixel by pixel" del film di Lynch. Inland Empire non è di conseguenza un esperimento fine a se stesso, perché nel corso delle quasi tre ore di durata, viene messo in piedi un deliberato atto di demolizione/ricostruzione/elaborazione segnica dell'intero mondo lynchiano (attori inclusi, eccezion fatta per il "nuovo" arrivato Jeremy Irons). Le lettere di The Alphabet (le lettere AxXoN N. che s'incontreranno in vari momenti). Il solipsismo allucinatorio ed alienante di Eraserhead - La mente che cancella. La maschera/le maschere di The Elephant Man (il panno con la bruciatura di sigaretta come inizio/fine della vecchia/nuova distanza tra visione e conoscenza, nonché come passaggio di consegne tra rullo e memory card). Il gigantismo visivo di Dune. La stanza rossa e la segheria (la breve apparizione del finale) di Twin Peaks. Gli interstizi visuali e il tema del "doppio" presenti in Strade perdute. Le stelle (qui cementificate sui marciapiedi di Los Angeles) di Una storia vera. La morbosità esuberante di Velluto blu, Cuore selvaggio e Mulholland Drive (con in conclusione le emblematiche apparizioni di Laura Harring e Nastassja Kinski, qui come possibile fantomatico "clone" digitale di Isabella Rossellini).
Ma in Inland Empire c'è ancor di più. C'è anche un pezzo di citazionismo extra-lynchiano (i fremiti sonori kubrickiani del finale, con partiture di Penderecki e Lutoslawski). E c'è un (ipotetico?) attacco alla società mediatica contemporanea, con conigli giganti vestiti da uomo (o il contrario?) che interpretano un'immaginaria (?) sit-com per spettatori "virtualizzati" e collocati in uno spazio filmico che separa, congiungendoli, l'Overlook Hotel di Shining e la sala cinematografica di Donnie Darko (perché indossate quegli stupidi costumi da teleutenti?).
Tutti questi elementi concorrono a fare di Inland Empire un viaggio senza ritorno. Non certo per David Lynch. Ma per il cinema, per il meta-cinema e per tutte le arti figurative moderne e postmoderne. Cioè per quei simulacri che non è più possibile sottrarre alla costante analisi di quel misterioso fascio di luce che compare nei titoli di testa, illuminando furtivamente il buio iniziale del "film". Sintetizzato (metaforicamente?) in un semplice ammasso di segni linguistici. Forse perché, come affermò Lynch nel corso di una memorabile intervista, il terrore non è generato dal buio assoluto, bensì da quella condizione percettiva vicina al buio. Ovvero il cinema e oltre.