Recensione L'eclisse (1962)

Non è da escludere che L'eclisse sia un film di fantascienza sulle impossibili alchimie di coppia e sull'oscuramento dei sentimenti umani. Nella totale e glaciale esaltazione dei valori plastici e formali della visione.

Il buio finale

Il terzo ed ultimo film della cosiddetta trilogia di Michelangelo Antonioni (che conclude il periodo in bianco e nero), è anche quello che segna il definitivo consolidamento della poetica del maestro. L'eclisse (Premio Speciale al quindicesimo Festival di Cannes) esaspera il discorso sull'alienazione dell'uomo moderno e sullo smarrimento dell'anima, in modo più incisivo rispetto ai precedenti L'avventura e La notte. La grande metropoli moderna nelle mani del regista ferrarese (Roma, oltre ad un breve episodio ambientato a Verona) diventa lo specchio di una realtà sempre più sfuggente, dove l'esistenza stessa è ridotta a pulviscolo cosmico destinato a frantumarsi ulteriormente. Si noti a proposito l'estremo tentativo di astrazione che nel finale coinvolge vari spezzoni di vita quotidiana, simulacri di un mondo in disfacimento a causa delle sue convenzioni, dei suoi rituali e della sua vacuità. L'esplosione finale del bianco a tutto schermo che si obnubila repentinamente sulla conclusiva parola fine, sancisce così l'irrimediabile inconciliabilità degli opposti: la luce e l'oscurità, la donna e l'uomo (o gli uomini), il soggettivo e l'oggettivo, il conosciuto e il conoscibile.

L'equivocità del reale, tema di fondo di tutto il cinema antonioniano, viene conseguita dopo un continuo surplus d'immagini e una elaborata "sottoesposizione" della narrazione, in grado d'inscrivere i protagonisti nell'ambiente circostante e circostanziante. Gli interni domestici, le strade deserte e la borsa valori (con la punteggiatura sociologica nel ritratto della madre di Vittoria insieme anche all'indicativo silenzio che segue all'annuncio di morte), trasformano Vittoria (la straordinaria e sottovalutata Monica Vitti), Piero (l'icona del cinema francese Alain Delon) e Riccardo (il bunueliano Francisco Rabal) in elementi estranei, che diventano ancor più estranei quando si avvicinano, quando si cercano, quando si toccano, quando si ripudiano. I loro movimenti ricalcano quelli dei corpi celesti in procinto di seguire una musica delle sfere senza climax e senza risoluzioni possibili. In questa chiave diventa fondamentale la lunga sequenza iniziale che coinvolge Vittoria e Riccardo all'interno dell'appartamento: la macchina da presa riprende Vittoria di spalle mentre cammina all'indietro, con un movimento leggero, disegnando orbite che porteranno i due a sovrapporsi lentamente, come il sole e la luna in un'eclisse; la tenda verrà spalancata da Riccardo su uno scenario dominato da una torre (dalla vaga e freudiana sembianza fallica) che quasi annuncia la desolata area industriale del successivo Deserto rosso.

Ma è anche nel paesaggio irreale, quasi lunare, della città svuotata da qualsiasi velleità di vita (illuminata con toni rarefatti ed elettrici, con le luci pronte a disegnare nel buio un illusorio cielo stellato) che prosegue il viaggio verso il nulla di Vittoria (della quale Antonioni riprende spesso la chioma bionda come un sole che sorge). Vittoria non è altro che un astro in preda ad un incontrollabile moto gravitazionale interiore che l'attira costantemente verso due universi distinti e paralleli: quello della piatta e invariabile certezza borghese di Riccardo e quello del rischio e del capitalistico compromesso dell'agente di borsa Piero. I due uomini di Vittoria sono due poli che non si congiungeranno mai e che non potranno mai garantire una soluzione all'instabilità, alla noia ed alla nevrastenia della donna: "io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene... E poi non bisogna volersi bene" confessa ad un certo punto Vittoria, illogicamente. E' questa la conferma della percezione anti-cognitiva del reale (ribadita anche nella effimera digressione dell'episodio esotico e in quella dell'inutile viaggio in aereo verso un altrove qualunque) e dell'epurazione dei sentimenti perseguita nella cinematografia di Antonioni: fattori che, con la conclusiva collisione tra il bianco e il nero, impediscono ne L'eclisse qualsiasi ricerca di una soluzione esistenziale.