Recensione Arthur e il popolo dei Minimei (2006)

Sebbene sia sorretto da situazioni e linee narrative propriamente non originali, Arthur e il popolo dei Minimei merita se non altro attenzione per l'abilità tecnica mostrata nel fondere in un unico universo visivo ed emozionale il live action con l'animazione.

I viaggi di Arthur

Titolo di punta della nona edizione del Future Film festival di Bologna, Arthur e il popolo dei Minimei ha rappresentato per Luc Besson una vera e propria sfida professionale e creativa, che ha richiesto al cineasta non solo cinque anni di intensa lavorazione ma soprattutto il confronto con l'animazione, materia estranea fino a questo momento al background del regista di Leon e de Il quinto elemento.

Tratto dai primi due volumi scritti dallo stesso Besson sull'idea originale della co-sceneggiatrice Céline Garcia - Arthur e il popolo dei Minimei e Arthur e La città proibita - illustrati da Patrice Garcia, il film contamina senza soluzione di continuità animazione 3D, live action e set tridimensionali basati su modelli concreti, per un omaggio divertente e riuscito all'infanzia e al potere dell'immaginazione che vuole essere il più possibile fotorealistico, allontanandosi da una sensazione di artificiosità.
Nel Connecticut del 1960, Arthur (Freddie Highmore) è un bambino di dieci anni intelligente e dotato di grande fantasia e inventiva, come del resto il nonno Archibald (Ron Crawford) - un po' Indiana Jones, un po' Ernest Hemingway - che però è scomparso da quattro anni senza lasciare traccia. Ragazzino solitario, trascurato dai genitori che lavorano altrove, Arthur vive con l'amorevole nonna (Mia Farrow) con la quale legge le storie scritte dal nonno, ambientate in Africa e popolate da eccentriche tribù tra cui i Minimei, piccoli esseri alti poco più di qualche pollice.

Ed è proprio in uno di questi libri che il giovane protagonista scopre gli indizi per risolvere l'enigma della scomparsa e del nonno e trovare, al contempo, un tesoro nascosto che contribuirà a salvare la casa della nonna, intrisa di ricordi e di tesori provenienti da tutto il mondo, che rischia di finire nelle mani di uno speculatore edilizio senza troppi scrupoli. Gli indizi condurranno direttamente al giardino di casa, dove si cela il minuscolo ma colorato mondo dei Minimei. Qui Arthur, trasformato a sua volta in uno di questi piccoli elfi-folletti, conoscerà la testarda e indipendente principessa Selenia (doppiata in versione originale dalla pop star Madonna) e il suo scanzonato fratello minore Betameche, al fianco dei quali si troverà a combattere il crudele stregone Maltazard (nell'originale David Bowie che, dopo The Prestige, torna a recitare anche se soltanto in qualità di doppiatore) nell'oscura terra di Necropolis.

Sebbene sia sorretto da situazioni e linee narrative propriamente non originali, che rievocano l'archivio consolidato di storie e immagini legate al genere fantasy e ai film d'avventura (su tutti il richiamo a I Goonies e a La spada nella roccia) ma anche alla letteratura per l'infanzia e l'adolescenza, Arthur e il popolo dei Minimei merita se non altro attenzione per l'abilità tecnica mostrata nel fondere in un unico universo visivo ed emozionale, senza bruschi stacchi o soglie definitive come avveniva in Chi ha incastrato Roger Rabbit?, il live action con l'animazione. Fondamentale, in questo senso, il lavoro delle circa settecento persone della BUF Cie, guidate dal regista della parte animata al computer Pierre Buffin; la società, specializzata in Computer Graphic Image (CGI), è diventata un leader mondiale nel campo degli effetti speciali, chiamata a lavorare ai film di David Fincher, Fight Clube Panic Room e a creare effetti speciali fotorealistici per pellicole come Batman & Robin, Matrix, Human Nature e 2046. Buffin ha messo a disposizione di Luc Besson l'innovativo sistema del Video Motion Capture, una tecnica già sviluppata per Alexander di Oliver Stone, grazie alla quale il regista ha potuto girare un "Dummy-run" del film (un provino di base per avere un'idea di come si svolgerà la scena) dove ha filmato veri attori all'interno di uno spazio non più grande di 12 metri, mentre venivano ripresi da 6-9 cineprese, registrando le inquadrature e le angolazioni di ripresa, ma soprattutto le espressioni degli interpreti senza ricorrere ai sensori della tradizione Motion Capture tesi alla memorizzazione del movimento. Veniva così fornito agli animatori, oltre allo storyboard montato e a una colonna sonora provvisoria, un'ampia gamma di riferimenti per i sentimenti, le intenzioni, l'espressività e i comportamenti dei personaggi.

L'intenzione fondamentale di Besson e dei suoi collaboratori era soprattutto quella di portare a termine un importante film europeo di animazione, discostandosi apertamente da quello che è il modello americano, dove la divisione del lavoro è meticolosa e gli animatori e i tecnici impiegati sono qualificati in aree specifiche. Sfruttando invece la versatilità degli artisti e degli animatori europei, francesi in particolare, si è diviso il film in sequenze - chiamate "tavole" - in cui ogni gruppo di artisti si occupava di tutte le fasi, dalla animatics (animazione grezza dei personaggi), alla luce e alla renderizzazione. L'America si tenga, quindi, pronta perché l'Europa ha gettato il suo guanto di sfida sul versante dell'animazione.