Tutto ciò che si trova nel deserto di una vita frustrata dà speranza, e con la speranza viene l'amore... e con l'amore viene l'odio.
Non esiste una categoria per un film come I diavoli; non ci sono definizioni in grado di racchiudere in poche parole la natura multiforme, schizofrenica, iconoclasta della pellicola firmata nel 1971 da Ken Russell, in assoluto fra i progetti più controversi che abbiano mai visto la luce sotto i vessilli di una grande casa di produzione. In effetti ha dell'assurdo (o del miracoloso?) pensare che mezzo secolo fa la Warner Bros accettava di finanziare e distribuire un'opera che sarebbe stata osteggiata fin dalla sua realizzazione e sommersa da accuse di blasfemia a partire dalla sua uscita nelle sale, il 16 luglio 1971 negli Stati Uniti e nove giorni più tardi in Gran Bretagna. Un'opera che ancora oggi, a cinquant'anni di distanza, rimane un autentico UFO nel catalogo della Warner, tanto che l'edizione integrale del film, con il ripristino delle scene rimosse all'epoca dalla censura, resta tuttora una sorta di Sacro Graal (con Guillermo del Toro in prima fila a richiederne la pubblicazione in home video).
Il cinema a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta non era certo nuovo a cosiddetti film-scandalo: prima Se... di Lindsay Anderson e poco dopo Arancia meccanica di Stanley Kubrick avevano fatto discutere per il modo di rappresentare la violenza e per il loro spirito radicalmente anti-establishment; con Ultimo tango a Parigi, Bernando Bertolucci abbatteva diversi tabù nel mettere in scena l'erotismo; mentre L'esorcista di William Friedkin avrebbe rivoluzionato il genere horror sia sul piano del linguaggio, sia per la sua rivisitazione dell'iconografia cristiana. I diavoli, che anticipa di due anni il capolavoro di Friedkin, già raccoglie i suddetti elementi: la 'veste' del dramma storico, basato sulla reale vicenda al centro del libro di Aldous Huxley I diavoli di Loudun (e della trasposizione teatrale di John Whiting), cela infatti una spaventosa allegoria del potere, del suo legame con la morale e la religione e del fanatismo come strumento di controllo delle masse.
Stregonerie ed esorcismi nella Francia di Richelieu
I diavoli del titolo sono quelli che le autorità della Francia del 1634 ravvisano a Loudun, oggetto delle mire del Cardinale Richelieu (Christopher Logue), preoccupato dalle velleità di autonomia della cittadina nell'ottica di un rafforzamento in chiave assolutistica della Monarchia francese. A dare man forte alla ragion di Stato - la necessità di abbattere le mura di Loudun - interviene dunque una repressione di matrice religiosa: chi sta corrompendo le suore del convento locale, in preda a una forma di isteria collettiva nei confronti del sacerdote Urbain Grandier (Oliver Reed)? È forse il demonio a suscitare un inconfessabile trasporto erotico verso padre Grandier nell'animo delle orsoline e della loro madre superiora, suor Jeanne degli Angeli (Vanessa Redgrave)? La gelosia divorante di suor Jeanne e le sue accuse di stregoneria all'indirizzo di Grandier saranno così il viatico per l'ingresso a Loudun della Santa Inquisizione, il braccio armato di Richelieu.
Ken Russell comincia a girare I diavoli sull'onda del successo di Donne in amore, film tratto dal romanzo di D.H. Lawrence, che lo avrebbe lanciato a livello internazionale e gli avrebbe fatto guadagnare la nomination all'Oscar per la miglior regia. In un periodo di prolificità instancabile, nell'arco del 1971 Russell porta nelle sale L'altra faccia dell'amore, biografia di Pëtr Cajkovskij, I diavoli e, alla fine dell'anno, la commedia musicale Il Boy Friend; fra questi, è l'adattamento da Huxley a riscuotere maggior attenzione e a scatenare un vespaio di polemiche, inclusi gli strali scagliati dagli enti cattolici dopo la presentazione de I diavoli al Festival di Venezia. A far indignare i benpensanti, al di là dei toni grotteschi del racconto, sono in particolare le scene in cui la frenesia sessuale delle suore trova libero sfogo: l'allucinazione di suor Jeanne, che si avvinghia a un Grandier immaginato con le sembianze di Gesù Cristo, e l'esorcismo dell'inquisitore Pierre Barre (Michael Gothard), che si trasforma in una colossale orgia collettiva in cui le monache si spogliano del loro abito per consumare atti osceni all'interno della chiesa.
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Il baccanale di Loudun, fra satira e tragedia
Proprio la sequenza dell'orgia sarebbe stata drasticamente ridotta per il mercato statunitense, ma anche in Europa, dove I diavoli registrerà comunque ottimi incassi, alcuni minuti di girato spariscono dalla versione cinematografica: l'apoteosi orgiastica delle monache sopra un crocefisso (una scena soprannominata "lo stupro di Cristo") e, nell'epilogo, un atto di masturbazione praticato da suor Jeanne con un femore. Perché alla dimensione politica del film, che rilegge la storia del diciassettesimo secolo per mettere in luce le abiezioni del potere, si associa una dimensione che è invece culturale e psicologica, legata al conflitto fra la negazione delle pulsioni istintuali dell'essere umano e l'esplosione di tali pulsioni: un corto circuito paragonabile al delirio delle Baccanti di Euripide e al connubio archetipico fra eros e morte. Non c'è alcun diavolo a Loudun, e l'antifrasi del titolo allude piuttosto al vortice di perversione e di follia generato da un sistema repressivo, che Ken Russell dipinge con pennellate di feroce humor nero: dall'interrogatorio di suor Jeanne alla 'caccia' agli ugonotti travestiti da uccelli e abbattuti a colpi di pistola per il divertimento della corte.
Satira e tragedia sono pertanto i termini opposti di un film che amalgama il gusto decadente e camp (l'apertura sulla danza di un Luigi XIII en travesti, abbigliato come una Venere seminuda) e un macabro iperrealismo (la pestilenza che devasta Loudun, ridotta a un lazzaretto a cielo aperto); i virtuosismi barocchi della regia di Russell e la simmetria rigorosa di certe inquadrature, costruite sulle geometrie di set che abbandonano qualunque pretesa di fedeltà storica. Un apporto fondamentale, in tal senso, è costituito dalle scenografie di un futuro grande cineasta quale Derek Jarman: la sua Loudun è un'imponente città in stile modernista dominata dal bianco, con architetture anacronistiche che producono un inevitabile effetto di straniamento, mentre gli interni del convento sono attraversati da linee orizzontali e verticali volte ad evocare un inviolabile senso di ordine (e di prigionia), contrapposto al caos che si agita nell'animo delle monache.
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L'anima e la carne: padre Grandier e suor Jeanne
I diavoli, in fondo, è anche un film sul caos, sull'inquietudine, sulla passione; un film sulla dicotomia fra lo spirito e la carne, in cui quest'ultima avrà sempre il sopravvento. L'impossibilità di conciliare i due elementi è la radice della nevrosi delle suore; al contrario, padre Urbain Grandier è l'ecclesiastico che si concede i piaceri sensuali senza rinunciare al proprio ruolo di guida religiosa e politica della comunità. Grandier, che in segreto prenderà in moglie Madeleine de Brou (Gemma Jones), incarna appunto una sintesi di entrambi gli aspetti e trova un interprete ideale in Oliver Reed, con la sua fisicità possente e l'autorevolezza insita nel volto e nella voce. Ma se Grandier è l'asse su cui convergono tutte le tensioni - sessuali, morali, politiche - della vicenda, a stamparsi ancor di più nella memoria è la figura di suor Jeanne degli Angeli, alla quale una magnetica Vanessa Redgrave (ingaggiata da Russell dopo il rifiuto di Glenda Jackson) conferisce un'ambiguità al contempo diabolica e autodistruttiva.
Dalla sua prima apparizione, mentre avanza lungo i corridoi del convento con la testa reclinata su un lato e una luce sinistra nello sguardo, apostrofando le altre monache con sferzante severità, suor Jeanne è la "variabile impazzita" della storia: un personaggio che sperimenta sulla propria pelle la scissione fra anima e sangue, che sogna di farsi possedere da padre Grandier in una visione di imitatio Christi, ma nella realtà è costretta a ingabbiare i propri desideri nel suo ruolo di madre superiora e in un corpo deformato dalla gobba. Carnefice determinata a vendicarsi di Grandier, ma vittima lei stessa di ossessioni che sconfinano nell'autoflagellazione (la stimma inflitta durante una fantasia di amplesso), suor Jeanne finisce per assorbire dentro di sé le contraddizioni di un'epoca oscurantista; al punto che negli occhi della Redgrave, in quelle labbra pronte a contrarsi in una smorfia o in un ghigno, si può leggere un orrore verso il mondo che è innanzitutto orrore verso se stessa.
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