Mentre scriviamo si è concluso da poche ore il primo dibattito televisivo che ha visto confrontarsi dal palco allestito all'Hofstra University di New York la candidata democratica Hillary Clinton e il candidato repubblicano Donald Trump in una campagna presidenziale giocata su un equilibrio labilissimo, dove il vantaggio, per l'uno o per l'altra, è rappresentato da una manciata di voti e dove il futuro successore di Barack Obama alla Casa Bianca farà, in ogni caso, la storia del Paese. Il primo Presidente degli Stati Uniti donna o il tycoon miliardario che ama i riflettori e le sparate sensazionali.
Tra i temi affrontati durante la Debate Night non sono mancati riferimenti all'Afghanistan, all'Iraq, all'ombra del Califfato sull'Occidente, alla minaccia informatica (dalle famose mail di Hillary al ruolo sempre più rivelante e concreto di possibili attacchi di hackeraggio) fino alla spinosa questione del razzismo e della violenza Made in U.S.A.
Attenzione, seguono spoiler sulle prime 5 stagioni di Homeland
Tutti argomenti che se allineati su un ipotetico asse temporale andrebbero a ricostruire, per sommi capi, le prime cinque stagioni di Homeland, accompagnandoci a sbirciare, grazie alla figura di Hillary Clinton, in quel sesto capitolo, che debutterà oltreoceano il prossimo 15 gennaio, ambientato a Washington tra l'Election Day e l'Inauguration Day. Settantadue giorni nel quali conosceremo, tra i vari personaggi introdotti nel nuovo capitolo, Elizabeth Keane (Elizabeth Marvel, l'Heather Dunbar di House of Cards), senatrice dello stato di New York eletta Presidente degli Stati Uniti. Un ritorno televisivo slittato di tre mesi rispetto al tradizionale debutto autunnale con il quale Homeland si presentò al pubblico americano esattamente cinque anni fa, il 2 ottobre del 2011. Una serie, basata sull'israeliana Hatufim di Gideon Raff, ideata per Showtime da Howard Gordon e Alex Gansa, già noti per 24, destinata a diventare un punto di riferimento per il genere political drama/thriller fin dalla sua prima stagione.
"An American prisoner of war has been turned"
In principio fu West Wing, la serie creata da quel geniaccio di Aaron Sorkin e incentrata sul doppio mandato del democratico Jed Bartlet (Martin Sheen), a portare la politica americana sul piccolo schermo. Andata in onda sulla NBC dal 1999 al 2006, The West Wing, ha sostanzialmente coperto gli anni dell'amministrazione Bush con un'impostazione ben lontana dalla sua impronta politica ed ispirata invece alle idee liberal del fittizio Presidente Bartlet. Ambientata nell'area ovest della Casa Bianca, la serie, segue da vicino l'attualità politica, trasfigurandola però sempre narrativamente, con riferimenti al terrorismo, a scandali o a questioni di amministrazione interna.
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E proprio al tema del terrorismo si riallaccia la già citata 24, serie ideata da Joel Surnow e Robert Cochran, dedicata all'agente Jack Bauer (Kiefer Sutherland), impegnato a sventare possibili attacchi sul suolo americano. Ma la serie che meglio di tutte è riuscita a raccontare l'evoluzione della politica americana, intrecciandola alla fiction, è proprio Homeland. Un prodotto televisivo che debutta a dieci anni dall'11/09, in piena amministrazione Obama, riscrivendo le regole del political drama così come l'allora neo Presidente riscrisse quelle dello storytelling politico grazie alla sua campagna elettorale 2.0, rivoluzionaria nei mezzi e nei contenuti al pari solo di quella di John F. Kennedy nel 1960.
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L'ombra del dubbio
Nell'anno dell'uccisione di Osama Bin Laden, Homeland, fa ripiombare l'America nell'incubo del terrorismo di matrice islamica attraverso la figura dell'ex marine Nicholas Brody (Damian Lewis), convertito alla causa della Guerra Santa dopo anni di prigionia, e pronto a colpire lo stesso Paese al quale aveva giurato fedeltà. Gli autori hanno "costretto" un Paese - ancora incapace di metabolizzare il lutto successivo alla caduta delle Twin Towers che ha cambiato il corso del nuovo secolo appena iniziato - a provare empatia per un'eroe di guerra macchiato dall'ombra del dubbio, un uomo che rappresentava il nemico ma che aveva al petto una medaglia al valore americana.
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Nel corso delle cinque stagioni finora realizzate, la peculiarità dello show è sempre stata quella, infatti, di narrare, capitolo dopo capitolo, l'evolversi della politica estera reale, con riferimenti precisi o addirittura anticipatori. Attraverso la protagonista, l'agente della CIA Carrie Mathison (Claire Danes), abbiamo assistito alle conseguenze, sfibranti, della guerra preventiva promossa da Bush Jr. e al suo mutamento in conflitti di stampo tecnologico grazie all'ausilio di strumenti sofisticati (dai droni ai satelliti) ma non sempre risolutivi, fino all'espansione del Califfato e all'uso del web come strumento di reclutamento e propaganda, passando poi per i riferimenti alla politica interna, come il Datagate scaturito dalle rivelazioni di Edward Snowden, o al profetico attacco dell'ISIS ad una capitale europea tratteggiato nella quinta stagione.
Da al-Qaida al Califfato, Gordon e Gansa, non hanno semplicemente dato vita ad un prodotto di intrattenimento ma hanno permesso, seppur con le dovute e naturali contaminazioni fiction, di far comprendere e conoscere, anche a quella fetta di spettatori digiuni di politica (non solo a stelle e strisce), i meccanismi che la muovono e il suo continuo sviluppo. Un modo di fare televisione che, nonostante le lampanti differenze, ha aperto la strada alla complessità di una serie come House of Cards che ha portato la narrazione politica su un gradino più alto anche grazie all'audacia e all'originalità dimostrate dai due ideatori di Homeland.
E se a raccontare un lato più "leggero" della politica americana ci ha pensato Shonda Rhimes con il suo Scandal, thriller di stampo sensazionale che racconta segreti, scorrettezze, corruzione e dubbia morale che muovono la macchina politica in puro stile ShondaLand, o prodotti di minore impatto come Madam Secretary o State of Affairs, fino alla satira dissacrante di Veep o i risvolti sci-fi del recentissimo BrainDead, Homeland, mantiene una serietà inedita ma mai arrogante nel suo approccio al racconto politico. Dagli uffici di Langley alle strade di Beirut, dal Pakistan a Caracas, passando per Kabul, Berlino e Washington per approdare, nella sesta stagione, a New York, anche la geografia di Homeland ha permesso allo show di arricchire il suo contenuto, mostrando colori e realtà agli antipodi, creando quel respiro internazionale necessario alla sua crescita.
"I'm going to be alone my whole life, aren't I?"
Ma Homeland non è solo politica. Homeland è soprattutto Carrie Mathison (Claire Danes, due volte vincitrice del Golden Globe per la sua interpretazione), l'analista del centro anti-terrorismo della CIA affetta da bipolarismo, magnetica nei suoi movimenti nervosi e dai sorrisi tristi. Una figura fondamentale non solo per lo show ma per tutta la serialità che attraverso ombre e fragilità, ambiguità e scelte non sempre condivisibili ha dato vita ad un personaggio imperfetto, un ruolo femminile complesso e sfaccettato, che non può lasciare indifferenti. La giovane donna sessualmente libera e la professionista inappuntabile, la madre inadeguata che lascia poi spazio all'amore per la figlia Frannie e la paziente dal percorso altalenante, l'amica fidata e la doppiogiochista.
Carrie Mathison è un'insieme sfaccettato di realtà che rendono il suo personaggio l'elemento chiave che ha permesso ad Homeland di continuare a funzionare nel suo continuo trasformarsi di pari passo con la mutazione personale della sua protagonista. Un ruolo che se riservato ad uomo non avrebbe concesso allo show il medesimo successo ottenuto in queste prime cinque stagioni. La rivoluzione di Gordon e Gansa è tutta qui. Carrie Mathison è la loro carta vincente, il mezzo con il quale scardinare e ricomporre dall'interno la figura femminile in tv per aprire ad una tridimensionalità sorretta anche da scelte che avrebbero, ipocritamente, rischiato di non incontrare il favore del pubblico e che, invece, sono state ripagate.
Dal primo episodio di Homeland, mentre Carrie parla, seduta su una panchina della sede della CIA, con il suo mentore Saul (Mandy Patinkin) con il fervore di chi sente di avere ragione - "I missed something once before, I can't let that happen again" - scopriamo una giovane donna testarda e tormentata, costantemente scissa in un dualismo che la caratterizza come individuo. Convinta che Brody sia un terrorista al servizio di Abu Nazir (Navid Negahban) se ne innamora ugualmente, vivendo una relazione fatta spesso di parole non dette ma cariche di un'amore racchiuso in una stella disegnata con il pennarello su una parete commemorativa di Langley. Una dualità presente in ogni suo rapporto interpersonale, da quello dalle reminiscenze padre/figlia con Saul a quello travagliato con Peter (Rupert Friend), o al suo bisogno di tornare sul campo mentre continua a ripetersi che quell'analista della CIA non esiste più.
Un personaggio spesso tormentato dal senso di colpa per le sue stesse azioni che dal primo bacio a Brody non ha smesso di accompagnarla. Dalle reazioni dure nei confronti dei colleghi, come accadde per l'analista musulmana della CIA Fara Sherazi (Nazanin Boniadi), all'incapacità di rivestire il ruolo di madre, dalle menzogne raccontate al giovane studente di medicina Aayan Ibrahim (Surai Sharma) nascoste con la seduzione alla consapevolezza di aver spesso agito in nome di una giustizia dai contorni non sempre definiti. Carrie Mathison è un personaggio riuscito essenzialmente perché gli autori ne hanno messo in primo piano le ombre, umanizzandola, rendendola quanto di più simile ad una persona reale in continua lotta con i propri limiti, creando così un legame emozionale tra il personaggio e lo spettatore.
Frammentata come una melodia free jazz
Un legame quello tra Carrie e la musica jazz molto presente nelle prime stagioni, anche attraverso semplici dettagli, che è andato poi perdendosi nel corso dei successivi capitoli ma che ha saputo contribuire alla costruzione del personaggio. Una costante di Homeland è rappresentata, infatti, dalla musica composta da Sean Calley che accompagna le immagini della sigla. Una melodia dalle sfumature free jazz con fiati e batteria che ricostruiscono in note la realtà convulsa del lavoro di Carrie e il suo animo irrequieto. Non è un caso quindi se l'analista cerchi conforto nell'ascolto di brani jazz per ritrovare un equilibrio mentale o la giusta concentrazione. Perché Carrie è esattamente come una melodia free jazz. Frammentata, irregolare, complessa, ostica eppure bellissima.
Dei tratti caratteriali influenzati inevitabilmente anche dalla malattia, altro elemento costituente e costante del personaggio interpretato da Claire Danes. Affetta da un disturbo bipolare, Carrie, convive con la sua condizione medica che in ogni stagione della serie ha rappresentato un fardello intimo ma anche una sorta di Deus ex machina da sfruttare, portandola al limite, per realizzare obiettivi lavorativi (spesso calcando sul pedale dell'esagerazione). Un dato peculiare che ha aperto ad altri personaggi del piccolo schermo, al pari di Toni Collette in United States of Tara, affetti da malattie mentali. Da Will Graham in Hannibal, interpretato dal marito di Claire Danes, Hugh Dancy, a Crazy Eyes di Orange Is the New Black, passando per Ian Gallagher di Shameless a Elliot Alderson di Mr. Robot.
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Un tallone di Achille chiamato razzismo?
Ma non bastano due Golden Globe consecutivi, nel 2012 e nel 2013, che decretano Homeland come la migliore serie tv drammatica, l'entusiasmo degli spettatori, tra i quali spicca un certo Barack Obama, e il plauso della critica ad allontanare dallo show pesanti critiche di razzismo per come viene rappresentato il mondo musulmano. L'esempio più eclatante è un autogol di proporzioni imbarazzanti incassato durante la quinta stagione in una sequenza ambientata all'interno di un campo profughi siriano in Libano dove Carrie si reca per accompagnare il suo nuovo capo, il filantropo Otto Düring (Sebastian Koch). Mentre l'ex analista viene accompagnata da un militante di Hezbollah all'interno del perimetro per incontrare il suo comandante, Al Amin, i due passano accanto ad un muro ricoperto di graffiti scritti in arabo. Autore delle scritte un'artista di origine egiziana di base a Berlino, Heba Y. Amin, che, approfittando della scarsa confidenza con la lingua araba della produzione, ha messo in atto la sua "vendetta" contro gli stereotipi dei quali più volte sono stati accusati gli showrunner, scrivendo frasi dal contenuto molto esplicito - "Homeland è razzista", "Homeland non è uno show" - che hanno centrato l'obiettivo e imbarazzato protagonisti e ideatori della serie.
Chissà allora se la coppia di showrunner avrà fatto tesoro dell'incidente nella stesura della sceneggiatura della sesta stagione che vedrà Carrie Mathison impiegata in una fondazione che aiuta i musulmani che vivono negli Stati Uniti.