Harry Belafonte, un attivista politico prestato all'arte

Il celebre artista newyorkese, a Locarno per ritirare il Pardo d'oro alla carriera, ha ricordato con noi i momenti più importanti della sua importante carriera.

Quello vissuto ieri sera in Piazza Grande è stato probabilmente il momento più emozionante di questa edizione del Festival di Locarno. Il pubblico svizzero si è trovato di fronte a un pezzo di storia vivente, l'immenso Harry Belafonte, e lo ha salutato con una lunghissima e commovente ovazione che ha visto seimila persone in piedi ad applaudire il divo sempre in fila nella lotta per i diritti umani. Lo splendido ottantacinquenne, che ha raggiunto il palco con passo spedito nonostante la presenza di un bastone da passeggio, ha ringraziato i presenti con parole cariche di speranza e impegno. Nato ad Harlem nel '27, ma cresciuto in Giamaica, patria della madre, Belafonte è stato profondamente influenzato dalla musica e dal folclore caraibico. Una volta tornato a New York, ha scelto di studiare recitazione e ha periodicamente fatto visita a set e palcoscenici. Nel 1954 è stato protagonista del capolavoro di Preminger Carmen Jones, opera di rottura che ripropone in versione black i temi della Carmen di Bizet. Poi è stata la volta di Strategia di una rapina di Robert Wise, del bellissimo Kansas City di Robert Altman e del recente Bobby, che ricostruisce l'omicidio di Robert Kennedy, amico di Belafonte. Ma l'artista si ricorda soprattutto per le sue battaglie contro la segregazione razziale, contro ogni discriminazione e per la presenza a fianco di Martin Luther King negli anni '60. Quando gli chiediamo di ricordare i momenti più importanti della sua vita, Belafonte si rivela un instancabile narratore, un vero fiume in piena.

Harry, può parlarci del suo modo speciale di conciliare arte e politica nel corso della sua carriera?
Harry Belafonte: Prima di tutto vorrei ringraziare il pubblico per essere venuto ad ascoltarmi. Spesso quando si invecchia si diventa una specie di reliquia cinematografica e non ero certo di interessare al pubblico. Ci terrei a specificare che io non sono un artista che è diventato attivista politico, ma un attivista che ha scoperto la musica e la recitazione. Da giovane facevo lavoretti come pulire i vetri delle finestre degli hotel. Una volta come mancia mi sono stati dati dei biglietti per spettacoli teatrali. Così ho conosciuto la magia del teatro e ho scelto di non andarmene più. Sono rimasto prima come pubblico, poi ho capito che volevo fare l'attore e ho studiato recitazione. Ho intuito che il teatro poteva arricchire il mio spirito e rendermi una persona migliore. Ho avuto un insegnante fuggito dalla Germania nazista che mi ha insegnato moltissimo e ho avuto compagni di studi come Marlon Brando, Walter Matthau, Rod Steiger e Tony Curtis. Uno dei miei migliori amici dell'epoca è stato Brando. Lui è stato un'incredibile fonte di ispirazione, il Picasso della recitazione. Uno dei motivi per cui sono qui è anche ricordarlo, perché ho cominciato a lavorare al mio documentario Sing Your Song proprio dopo la sua morte. Brando era molto impegnato nei confronti della famiglia umana e tutti i film che ha fatto sono stati scelti con l'idea che, nell'essere artista, c'era una scopo. Gli artisti sono i guardiani della verità e se le loro voci venissero messe a tacere la società crollerebbe.

Come spiega la fama incredibile che ha avuto?
Sono stato molto fortunato, le persone hanno amato le mie canzoni, ma ho utilizzato la fama e la generosità del pubblico per portare all'attenzione dei media le cause a cui tenevo. Questo è ciò che sono.

Secondo lei anche Otto Preminger, protagonista della retrospettiva di quest'anno, condivideva quest'attenzione nei confronti dell'impegno civile?
Credo di sì. Otto ha lasciato la Germania di Hitler e ha deciso di dirigere Carmen Jones. Fino ad allora le persone di colore venivano rappresentate come subumani privi di storia, di cultura. Le persone di colore venivano viste come comunità da proteggere senza pensare che avevano sviluppato le proprie società ben prima dell'intervento europeo. Quando Preminger fece Carmen Jones vide il film come un'opportunità per trattarci alla stregua di chiunque altro. Il film narra una storia drammatica, una storia di umanità. Fare una cosa del genere a Hollywood all'epoca era molto pericoloso. Per molti produttori il film non avrebbe avuto successo, così Preminger investì denaro di tasca propria e coinvolse un gruppo di giovani per fare non un film politico, ma una storia d'amore tragica, umana, universale. Per la prima volta è apparsa sul grande schermo una bella donna nera. Fino a quel momento le donne erano sempre schiave grasse o cameriere che si piegavano di fronte ai padroni bianchi, e anche gli uomini venivano mostrati intenti a svolgere lavori umili.

Cosa ricorda di quel set? Carmen Jones è stato girato in dieci giorni a causa del budget. Era un film complesso, realizzato in Cinemascope. Le voci del film non sono le nostre perché le canzoni erano pezzi lirici. Noi non avevamo una formazione lirica, ma gli eredi di Bizet avevano imposto di eseguire la partitura originale dell'opera senza alcuna variazione. Noi cantanti abbiamo accettato di lavorare in playback. Il mondo si è innamorato del film.

Cosa pensa del ruolo del festival cinematografici?
I festival hanno scopi differenti. E' bella l'opportunità di essere premiati, di essere riconosciuti e poter ricevere il calore del pubblico. Mi piace però sfruttare l'occasione per dire le cose che mi stanno a cuore. Io sono cresciuto in povertà e quando ho iniziato a diventare famoso ho deciso di usare la visibità per cause importanti. Sono stato influenzato da tre persone: Eleonor Roosevelt, una grandissima donna che lottava per l'uguaglianza e mi ha chiesto di collaborare con lei, Paul Robeson, personaggio molto potente nella comunità afroamericana che leggeva e scriveva in ventidue lingue, molte delle quali erano dialetti africani o lingue asiatiche, e poi Marthin Luther King. Quando l'ho conosciuto aveva ventiquattro anni, due meno di me. Era molto giovane per avere la responsabilità di guida della comunità afroamericana, ma era un teologo della liberazione. Mi disse che la cosa più importante, nella lotta per la conquista dei diritti civili, era parlare, farsi conoscere dai nemici per spingerli a cambiare. Quando all'inizio ho incontrato i Kennedy non erano nostri amici, erano gentili con noi, ma non erano interessati realmente alla nostra causa. E' stata la reciproca conoscenza a unire il nostro cammino per scopi politici.

E quando é diventato famoso che cosa è successo?
Quando sono entrato nel sistema divistico molti mi trattavano come un traditore. Venivo malvisto sia dai neri che dai bianchi ed è allora che ho capito che ero nel posto giusto perché così potevo farmi conoscere da chi odiava la nostra gente per ignoranza o pregiudizio. Nel 1957 sono stato uno dei primi artisti afroamericani a recarmi in Germania. Gli artisti pop non facevano parte della cultura locale che era ricca di musicisti classici. All'epoca c'era la legge marziale che vietava il raduno di più di cinque persone perciò nessuno venne ad accogliermi. Mentre eravamo in hotel i miei musicisti mi hanno avvertito di alcuni suoni che provenivano dall'esterno. Mi sono affacciato alla finestra e ho visto centinaia di giovani che, nonostante la legge, intonavano il mio nome. In un'altra occasione ho intonato una canzone che era un inno degli ebrei. I giovani tedeschi mi sono venuti dietro battendo il tempo e alla fine cantavano tutti. Solo pochi anni prima avevano odiato gli ebrei e ora cantavano un inno che parlava di pace nella lingua degli ebrei. Eravamo diventati tutti un'unica famiglia. Mi sono commosso perché ho compreso il vero potere dell'arte. Non accettavo la divisione tra Germania Est e Ovest perché ho sempre combattuto le leggi ingiuste.

Ha condiviso una parte del suo cammino con Miriam Makeba. Può parlarci di lei?
Sempre nel 1957 mi recai anche in Inghilterra. Una sera, tornando in hotel, trovai un giovane prete sudafricano che mi aveva aspettato insieme a tre giovani donne. Erano rifiugiate politiche che rischiavano l'espatrio perché avevano parlato pubblicamente contro l'apartheid e avevano girato un film di protesta, Come Back Africa. Nel film c'era Miriam Makeba che cantava una canzone con una voce meravigliosa. Io ho aiutato lei e le altre donne a ottenere un visto per andare negli Stati Uniti. Lei era molto preoccupata perché cantava in un'altra lingua, ma io l'ho rassicurata dicendole che la musica è universale. Per me era importante condividere il mio spazio con artisti che meritavano di essere ascoltati da un grande pubblico. Se fai le scelte giuste il pubblico ti amerà e ti comprenderà.

Attori come lei e Sidney Poitier hanno aperto la strada del successo agli artisti afroamericani.
Oggi ci sono più artisti di colore che in ogni altra epoca. La cosa che mi intristisce è che spesso non usano la propria visibilità per cause importanti. Il primo motore che muove l'umanità è il denaro ed è normale essere immersi nello star system, ma vi sono molti artisti che fanno film che soddisfano soprattutto le banche, opere prive di impegno, innocue. Oggi il potere non porta avanti una missione, ma corrompe società, religioni, partiti. Se noi non guarderemo alla vita con occhi diversi non riusciremo a cambiare la situazione.