Recensione L'ultimo dei mohicani (1992)

Ad una diffusa superficialità nella narrazione e nella caratterizzazione psicologica dei personaggi, corrisponde però un'attenzione sul piano visivo che porta alla creazione di un universo selvaggio e suggestivo.

Guerra e passione

L'ultimo dei Mohicani è un grande affresco epico di derivazione letteraria ambientato nell'America precoloniale divenuta teatro della guerra dei Sette anni. In realtà, all'interno del film, del romanzo di James Fenimore Cooper sopravvivono solamente il titolo e l'atmosfera romantica e selvaggia che si respira: Michael Mann sceglie infatti di modificare la vicenda romanzesca innestando, nella fabula originale, la sceneggiatura della versione cinematografica realizzata nel 1936 da George B. Seitz. L'attenzione si concentra prevalentemente sulla storia d'amore tra l'indiano bianco Nathaniel, cresciuto dai Mohawk dopo la morte dei genitori, e la giovane inglese Cora Munroe, storia totalmente assente nel romanzo, ma che il regista ha ritenuto una affascinante possibilità da approfondire. Michael Mann, specializzato in film d'azione, ha apprezzato fin da subito l'atmosfera generale del romanzo, molto meno la visione manicheista con la quale Cooper aveva dipinto gli indiani, rappresentandoli come nobili selvaggi o bestie feroci assetate di sangue. L'intento del regista è quello di approfondire comportamenti e psicologie delle tribù indiane schierate a fianco delle due potenze belliche rivali, Inghilterra e Francia, così egli non si limita solo a concentrarsi sulla rappresentazione del suo eroico protagonista Nathaniel e della sua famiglia Mohawk (il padre adottivo Chingachgook e il fratello Uncas), ma trova anche una giustificazione per il comportamento del crudele Magua, capo degli Uroni, il quale ha giurato eterna vendetta al nemico inglese colpevole di avere distrutto la sua famiglia, sottotesto completamente assente nel romanzo.

Al di là delle numerose modifiche effettuate, la sceneggiatura risente di un'eccessiva piattezza e semplificazione nelle dinamiche psicologiche dei caratteri e purtroppo qui e là spiccano ingenuità narrative e qualche piccola incoerenza. A farne le spese è soprattutto Daniel Day-Lewis che, nonostante la profonda intensità e l'eleganza con le quali interpreta il coraggioso Nathaniel, appare piuttosto sacrificato dal ruolo purtroppo privo di interiorità. Ad una diffusa superficialità nella narrazione e nella caratterizzazione psicologica dei personaggi, corrisponde però un'attenzione sul piano visivo che porta alla creazione di un universo selvaggio e suggestivo. Grazie alla splendida fotografia di Dante Spinotti ed alla natura lussureggiante delle foreste delle Blue Ridge Mountains, il film acquista una patina di antichità e le luci contrastanti di molte scene (tra cui spicca l'assalto delle truppe francesi al forte William Henry) sembrano richiamare alla mente dipinti dell'epoca.
Mann non punta alle finezze psicologiche, il suo scopo è piuttosto quello di creare un affresco epico ed emozionante in cui la violenza, apparentemente eccessiva, ma sempre funzionale, e l'indugiare della camera sul colore del sangue che scorre, si fondono con una colonna sonora vibrante ed appassionata la quale sottolinea con sapienza l'azione bellica. Alla fine, nonostante i difetti, il film risulta godibilissimo, soprattutto nelle scene d'azione e nei duelli coreografati con abilità e ripresi grazie ad un uso sapiente della macchina da presa capace di fotografare l'azione, pur senza eccessivi virtuosismi. L'immagine-chiave del film, quella che non può non rimanere impressa nella memoria dello spettatore, è sicuramente la corsa elegante e tempestosa di Nathaniel/Lewis che attraversa la prateria o la foresta con i capelli al vento e la "long carabine" e il tomahawk stretti in mano, simbolo di un'epicità e di un romanticismo dal sapore antico.

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3.0/5