"It's the end of the world as we know it and I feel fine", cantavano i R.E.M. nella famosa canzone: "è la fine del mondo per quello che ne sappiamo e io mi sento bene". È una frase che ci viene in mente ogni volta che pensiamo all'arrivo, al cinema o in streaming o in tv, di un film che prefigura la fine del mondo, o altre catastrofi simili. Sì, perché tanto più sullo schermo ci vengono proposti degli scenari da far rabbrividire, in un futuro più o meno prossimo, quanto più noi accorriamo al cinema, o davanti alla tivù, a non perderci lo spettacolo. Ora che Greenland, il film con Gerard Butler e Morena Baccarin arriva in streaming su Infinity+, è il momento di chiederci perché i film apocalittici continuano a piacere.
Greenland: in viaggio verso la terra promessa
Greenland allude alla Groenlandia, la terra in cui pensando di fuggire i protagonisti del film. John ed Allison sono una coppia che sta attraversando alcune difficoltà. Lui è un ingegnere, e, durante la festa di compleanno del figlio, riceve la notizia che un asteroide si sta dirigendo verso la Terra. I frammenti più grandi di questo asteroide porteranno a danni gravissimi, fino all'estinzione del genere umano. Ma alcune famiglie vengono scelte per essere portate in un luogo sicuro. Dovranno solo raggiungere un preciso punto di ritrovo per partire per questo viaggio fondamentale. Nel messaggio non viene precisata, ma quella terra promessa è la Groenlandia. Ma non è facile raggiungere il punto di partenza del viaggio: le strade diventano impraticabili, la gente tira fuori il peggio di sé, scoppiano le rivolte. E quei maledetti frammenti dell'asteroide cominciano ad arrivare sulla Terra in quantità sempre maggiori.
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L'asteroide, il pretesto pefetto
È la fine del mondo, per quello che ne sappiamo. Quello dell'asteroide è un vero e proprio sottogenere nel mondo del cinema apocalittico, un espediente usato spesso per creare scenari di paura di massa e di caos, e suscitare eroismi di vario tipo. A proposito di asteroidi negli anni Novanta erano arrivati, quasi insieme Deep Impact e Armageddon, stesso spunto, ma con il primo a concentrarsi più sulla Terra, e il secondo sulla missione spaziale per salvare la Terra. Di recente, in tema asteroidi, è arrivato il geniale Don't Look Up, ma di questo parleremo dopo. L'asteroide, in ogni caso, è sempre un pretesto perfetto. Un pericolo lontano, ma teoricamente possibile, tanto da suscitare paura ma anche da lasciare la libertà di racconto sugli eventi e le reali conseguenze.
La catastrofe serve a parlarci di noi
Spesso l'asteroide, in realtà, interessa poco a chi racconta, Il film apocalittico, in alcuni casi, si concentra poco sul pericolo, e molto sulle reazioni. È lo spunto per fare un "what if", per chiederci "cosa faremmo se". E allora il centro siamo noi, la nostra indole, i nostri rapporti con gli altri. Perché trovarci di fronte alla catastrofe, trovarci di fronte alla fine del mondo, ci permette di tirare fuori la nostra vera natura. E allora questi film ci permettono di riflettere da un lato sul lato più becero che l'uomo riesce a tirare fuori, e, per contro, de lato più eroico. Ci fa vedere chi abbandona tutto e tutti per mettersi in salvo, una sorta di homo homini lupus, e ci fa vedere chi si stringe intorno ai propri cari, chi scopre di tenere ai propri affetti, anche se forse li aveva dimenticati. È quello che accade, spesso, nei film di Roland Emmerich, vero e proprio maestro del genere apocalittico e catastrofico, prima con The Day After Tomorrow - L'alba del giorno dopo dopo e poi con 2012 (ma, insomma, anche Godzilla e Indipendence Day erano apocalittici). E, se nel secondo caso, proprio di fine del mondo si parlava, rimandando alla famosa profezie Maya, nell'altro la causa dell'apocalisse era un tanto repentino quanto fantastico cambiamento climatico. Il centro del film, in questi casi, è sempre una famiglia che si trova riunita, è sempre la scelta che ognuno di noi deve fare. I film apocalittici funzionano perché ci fanno guardare dentro noi stessi.
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Il cinema apocalittico ci mette davanti alle nostre paure
Ma i film apocalittici funzionano anche perché abbiamo paura. Torniamo per un attimo proprio a The Day After Tomorrow - L'alba del giorno dopo di Roland Emmerich. Quel film, pur estremizzando e concentrando i cambiamenti climatici in pochi giorni, puntava l'attenzione a un pericolo concreto che incombeva, e incombe sempre di più, sulla nostra Terra. E il cinema di questo tipo ha sempre una grossa presa su di noi perché ci pone davanti alle nostre paure, allo stesso tempo facendoci riflettere sui problemi, dall'altro esorcizzandoli: li guardiamo sullo schermo, in un rito collettivo, sperando di non trovarci a vivere quella realtà. Il cinema apocalittico ci ha messo davanti alle nostre paure: l'Olocausto nucleare (The Day After), la pandemia (Contagion), la catastrofe climatica (The Day After Tomorrow).
Se l'asteroide è una metafora
E arriviamo ai giorni nostri, con due esempi molto interessanti. Don't Look Up, che abbiamo nominato prima, è un film che mostra l'apocalisse sotto forma di satira, e questo permette una variazione sul tema che dà molta libertà. C'è ancora l'asteroide, certo, ma questa volta, in modo piuttosto evidente e dichiarato, è una metafora. In questo caso, proprio dei cambiamenti climatici, spada di Damocle che pende sul nostro pianeta. Come l'asteroide di Don't Look Up è qualcosa di evidente, acclarato. Eppure metà delle persone lo negano, evitano il problema, Come? Semplicemente non guardando su, scegliendo di non vedere. La cosa interessante è che, nel frattempo, nel mondo è scoppiata la pandemia, che ha scatenato in modo ancora più evidente le stesse problematiche. Guardare o non guardare, voler vedere o negare. Una metafora non voluta, ma efficacissima. L'altra caratteristica del film è che ha scelto di non puntare sull'asteroide (il pericolo sarebbe potuto essere qualunque cosa), ma sul sistema di informazione e di decisione, cioè sui media e sulla politica, rendendolo un trattato di antropologia, ma anche di sociologia politica o scienze della comunicazione. E, oltretutto, divertentissimo.
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Un po' predizione, un po' avvertimento
Che il genere apocalittico possa essere virato anche in commedia ce lo dimostra l'ultimo arrivato in questa nostra galleria. È italiano, è un gran film, ed è Siccità di Paolo Virzì, per la prima volta alle prese con il cinema distopico, anche se a lui questo termine non piace. Come ha scritto il nostro Antonio Cuomo nella recensione del film, Siccità è "un po' predizione di un futuro che si sta già avverando, un po' avvertimento che ci piacerebbe venisse accolto". Paolo Virzì, con Siccità, fa infatti parecchie cose: prima di tutto parte da un problema per concentrarsi sui rapporti e le reazioni delle persone, tra chi tira fuori il peggio e chi la propria umanità, proprio com'è nella tradizione del cinema apocalittico di cui vi parlavamo all'inizio. Poi, proprio come Don't Look Up riesce a fare una metafora. Il film è stato scritto durante la pandemia, e il regista livornese e i suoi sceneggiatori volevano parlare delle reazioni delle persone di fronte a un'altra catastrofe, davanti a un caso limite. E, in più, è stato anche profetico più volte: nell'anticipare la grande siccità di questa estate che, lungi da essere quella del film, ci ha fatto riflettere ancora una volta; ma anche nell'anticipare quel razionamento dei consumi (il gas invece dell'acqua, ma tant'è) a cui forse dovremo sottoporci nei prossimi mesi. Tutto questo, con ironia tagliente, umanità. E con quelle immagini iconiche (il Tevere prosciugato non è inferiore ad altre immagini ad effetto del cinema americano) che restano sempre negli occhi. I film apocalittici continuano a piacere, allora, perché vogliamo essere messi in guardia, riflettere, avvertire ed essere avvertiti. Ed essere abbagliati da grandi immagini che, sì, speriamo di vedere sempre e solo sul grande schermo.
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