Recensione Sentieri selvaggi (1956)

La privazione, la ricerca, la sete di vendetta e il riscatto. Sentieri selvaggi è un film a più tappe, tutte costrette all'interno di quella lente d'ingrandimento chiamata vecchio west. Che ingigantisce le frustrazioni interiori di un individuo e di una società in procinto di "abbracciare" cambiamenti epocali.

Gli spazi western dell'anima

Il controverso Sentieri selvaggi è opera ricchissima di spunti che delimita in un cerchio tutta la storia del western classico. Dopo un'accoglienza fredda riservata dalla critica più intransigente (celebre la stroncatura di Lindsay Anderson), Jean-Luc Godard tornò invece ben presto sui suoi passi, finendo per definire il film di John Ford come in grado di racchiudere "tutto il mistero e tutto il fascino del cinema americano". Per dimostrarlo basterebbero le due sequenze con cui la pellicola si apre e si chiude. Basta vedere per l'appunto le silhouettes dei protagonisti "sopravvissuti" alla torniturante ricerca della piccola Debbie che fanno il loro ingresso in casa, penetrando il nostro occhio di spettatori. Solo John Wayne, ovvero il protagonista principale Ethan, resta sulla soglia quasi formando un tutt'uno con la Monument Valley. E' un momento in cui vengono suturate tutte le ferite interiori del searcher, simulacro di un tumulto interiore in perenne climax (almeno fino al gesto risolutivo dell'abbraccio con Debbie). Ed il riassunto emblematico di Sentieri selvaggi potrebbe già essere in questi pochi secondi, che garantiscono una quadratura di quel cerchio a cui accennavamo prima. E questo profondo significato del capolavoro di Ford lo troviamo anche nella sequenza d'apertura, che ritrae casa Edwards quasi come un cunicolo di porte e finestre che contornano lo spazio filmico, restringendolo, per meglio focalizzare il distacco tra interni ed esterni. Cioè tra la dimensione intima del focolare domestico, quieto e rassicurante, e quella misteriosa e sconfinata del paesaggio esterno, rude e selvaggio.

Questo scarto è il segno che permette a John Ford di manifestare in Sentieri selvaggi tutta la sua miracolosa capacità di addensare personaggi e situazioni intorno ad una ferrea organizzazione drammaturgica e narrativa. E' una frattura che, tra l'altro, fa debordare la metaforica minaccia esterna rappresentata dai pellerossa. Perché non c'è più la diligenza di Ombre rosse, pronta ad essere difesa a spron battuto dall'esercito. In Sentieri selvaggi il pericolo esterno penetra direttamente nell'interiorità del film (e, per metafora, di un'intera civiltà) senza trovare ostacoli, e defraudandola così di uno dei massimi simboli dell'innocenza: la piccola Debbie.

Quello che avviene tra i due poli estremi del film diventa dunque la quintessenza dell'intero mondo aneddotico del western fordiano, legittimandone la mitopoiesi (la dimensione epica del viaggio e l'idealizzazione dei conflitti interiori presenti nelle opere degli amati William Shakespeare e Omero). La regia fa economia di inquadrature (una cinquantina circa), ma con quei grandi momenti di cinema in grado di mandare in visibilio i "giovani turchi" di tutti i tempi. Con i falsi raccordi. Con l'ombra minacciosa del capo dei Comanches, Scout (Scar nell'originale), che si staglia su Debbie e sulla lapide che rivela il motivo dell'odio di Ethan per gli stessi Comanches (da cui le ingiuste accuse di razzismo mosse al film di Ford al momento della sua uscita). Con la livida ed irreale fotografia con cui Ford fa rivelare ad Ethan la morte di Lucy. Con il cruento flash perturbante della mostra degli scalpi da parte di Debbie. E con Ethan che, dopo un feroce inseguimento, prende in braccio Debbie divenuta ormai una donna Comanche, in uno dei momenti più belli che la storia del cinema ricordi. E in un film che, con tutta probabilità, è quello che racchiude al meglio, grazie alla sua circolarità di fondo, l'anima più controversa del western classico.