Recensione Black Rain - Pioggia sporca (1989)

Il risultato più interessante di quest'operazione è un'Osaka ritratta come una metropoli labirintica, esotica e misteriosa, sospesa tra il buio inquietante di vicoli e parcheggi coperti e le stordenti luminescenze al neon che la accendono.

Gli anni '80 secondo Ridley Scott

Con alle spalle tre film di altissimo livello come I duellanti, Blade Runner e Alien ed un esperimento fantasy imperfetto ma non privo d'interesse come Legend, alla fine degli anni Ottanta Ridley Scott decide di applicare il suo stile registico ai temi e all'estetica di un decennio controverso, ipertrofico ed edonista come quello che si andava appunto concludendo. Risultato di questa operazione sono due polizieschi: il primo è Chi protegge il testimone (1987), il secondo è Black Rain - Pioggia sporca (1989). Molto più di quello con protagonista Tom Berenger, Black Rain è un film che contiene in sé alcuni degli elementi migliori e di quelli peggiori del cinema degli anni Ottanta e che per certi versi radicalizza anche alcuni dei pregi e dei difetti del regista britannico. La trama vede protagonista Nick Conklin, poliziotto newyorchese duro e ribelle, in conflitto con i superiori e indagato con l'accusa di essersi intascato soldi d'illecita provenienza. Nick ed il suo partner Charlie assistono per caso ad un omicidio commesso da un giapponese e riescono ad arrestare l'uomo, evidentemente uno yakuza: saranno incaricati di estradarlo in Giappone, ma giunti a destinazione se lo fanno sfuggire. Nick e Charlie si daranno da fare per ritrovare l'uomo collaborando con difficoltà con le autorità locali e ritrovandosi nel bel mezzo di una guerra tra boss rivali della mafia giapponese.

Al centro del film, nonostante e al tempo stesso proprio per via della trama poliziesca, c'è quindi lo scontro/incontro tra culture, tra una american way of being per l'appunto reduce dell'abbuffata edonista e superominica degli anni Ottanta e una cultura giapponese che ancora il cinema hollywoodiano e i suoi spettatori vedevano come molto più esotica e lontana di quanto pur non accada oggi. Scontro/incontro che s'incarna nella bipolarità incarnata da Nick e dall'ufficiale di polizia di Osaka Masahiro Matsumoto: tanto il primo è l'equivalente eighties del cowboy del West, ribelle, sregolato, ruvido, ma proprio per questo efficiente e "affascinante", quanto il secondo è il prototipo del giapponese rigido, (fin troppo) ligio al dovere, severo con se stesso prima ancora che con gli altri. Nel tratteggiare questa polarità, senza dubbio figlia di semplificazioni e di stereotipi, Scott è comunque in grado di ritagliarsi un margine di lavoro tale da permettere ai personaggi di superare (seppur a tratti) una riduttiva bidimensionalità e di dare spessore ai suoi gesti, alle sue azioni, alle sue parole.

Rimane quindi un po' d'amaro in bocca nel constatare che alla fine del film il risultato dell'interazione tra questi due personaggi non è tanto una sintesi, un sincretismo tra due opposte "ideologie" ma un processo di fagocitazione e assimilazione di un organismo più debole da parte di un organismo più forte.
Fin dal suo primo passo compiuto nel paese del sol levante, Nick è infatti visto come un virus, come un organismo estraneo che porta scompiglio e confusione nel sistema giapponese e nella vita dei singoli; un virus che non viene debellato ma semplicemente contenuto a costo della perdita di parte del proprio patrimonio culturale e valoriale, il tutto in nome di una "giusta causa".
Nick corrompe la moralità di Matsumoto e o porta a spalleggiarlo in azioni a lui non consentite; corrompe persino l'etica di un vecchio yakuza, allettandolo all'idea dell'annientamento del suo nemico, lo stesso uomo cui il gaijin dà la caccia. Il rapporto tra Nick e Matsumoto si chiude quindi in maniera non equilibrata, con il primo che ammorbidisce e affascina il secondo proprio in virtù del suo essere simpatica canaglia, mentre ben poco del senso dell'onore e del rispetto del nipponico viene assimilato dal cowboy dal sorriso smagliante che torna in patria alla fine del film. Ma d'altronde, lo abbiamo detto, siamo negli anni Ottanta, di cui questo film può rappresentare una sorta di compendio e di coronamento. E anche dal punto di vista estetico Scott media il suo istinto visuale con il look di quegli anni: il risultato più interessante di quest'operazione è un'Osaka ritratta come una metropoli labirintica, esotica e misteriosa, sospesa tra il buio inquietante di vicoli e parcheggi coperti e le stordenti luminescenze al neon che la accendono.

Al di là di pregi e difetti insiti nella trama e nella forma, quello che va riconosciuto a Black Rain, specie col senno di poi, è il fatto di aver sì rappresentato una sorta di capitolo conclusivo di un decennio contraddittorio nel cinema come nel resto del mondo e al tempo stesso di aver rappresentato un primo spiraglio d'apertura a temi e situazioni (anche cinematografiche ed estetiche) che dal 1989 in poi hanno preso sempre più piede nel cinema hollywoodiano e in altre arti visive, specie riguardanti l'estremo oriente e il rapporto tra la cultura occidentale, quella orientale e il loro avvicinamento, la reciproca rielaborazione, la sintesi.