Elvis: L’eterna lotta tra il talento e il conformismo

Elvis di Baz Luhrmann può essere letto come un'allegoria di un conflitto che esiste da quando esiste l'arte, quello tra il talento e la voglia di ingabbiarlo, tra l'ispirazione geniale e il bisogno che si ha sempre di incanalarla in qualcosa di rassicurante.

Elvis Photo Credits Hugh Stewart
Elvis: Austin Butler in una scena

"Ci sono persone che vorrebbero farmi passare come il cattivo di questa storia". Sono le parole del colonnello Tom Parker, interpretato da un Tom Hanks laido e lascivo, ad aprire Elvis, il film di Baz Luhrmann su Elvis Presley presentato al Festival di Cannes e al cinema dal 22 giugno. Ma è proprio lui il cattivo? La storia di Elvis Presley, interpretato da Austin Butler, è vista attraverso la complicata relazione con il manager, il colonnello Tom Parker, un Tom Hanks quasi irriconoscibile ricoperto da trucco prostetico. È proprio Parker il nostro anfitrione: è lui a raccontarci una storia di musica, passione e business. È curioso pensare che Tom Hanks avesse già in qualche modo incontrato e influenzato Elvis Presley. Ricordate? In Forrest Gump il giovane Forrest (interpretato da un ragazzino, ovviamente) aveva dato a un Elvis ancora agli inizi l'idea di quel suo movimento delle gambe e del bacino: aveva dei macchinari correttivi per le sue gambe, e si muoveva in modo strano per questo. Se Forrest Gump, allora, era stato la nascita della carriera di Elvis Presley, il colonnello Tom Parker è stato la nascita ma anche la morte. Se sulla morte vera e propria si può teorizzare all'infinito, è in qualche modo, se non una morta artistica (perché Elvis è stato creativo fino all'ultimo) una sorta di stallo, di gabbia dorata, quella a cui Parker lo ha in qualche modo costretto. Ma la questione è più complessa. È Parker è stato solo l'apice o, se volete, il simbolo di un sistema.

Il conflitto tra l'arte e il mercato

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Elvis: Austin Butler in una foto

Elvis di Baz Luhrmann può essere infatti letto come un'allegoria di un conflitto che esiste dalla notte dei tempi, da quando esiste l'arte. È quello tra il talento e la voglia di ingabbiarlo, tra l'ispirazione geniale e il bisogno che si ha sempre di incanalarla in qualcosa di rassicurante. La diversità, l'unicità, la genialità sono sempre state considerate qualcosa di scomodo, di pericoloso, di sovversivo. E per questo si è sempre sentito il bisogno si frenarle, di conformarle a qualcosa di già esistente. Elvis è allora la storia dell'eterna lotta tra talento e conformismo, tra stato di grazia e mediocrità. È il conflitto tra l'arte e il mercato, tra chi crea opere d'arte e chi tenta continuamente di tradurle in guadagno. Lungo tutto il film Il colonnello Parker cerca il guadagno in ogni modo. Forse è lui che inventa il merchandising, creando qualsiasi oggetto che sia possibile legare a Elvis. Ci sono perfino le spille con la scritta "I Hate Elvis", "io odio Elvis", perché tanto l'odio è già presente, tanto vale guadagnarci su.

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Quegli abiti stretti e scomodi

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Elvis: Austin Butler e Olivia DeJonge in una scena del film

La storia di Elvis può essere davvero letta come la lotta tra il talento e il conformismo, tra la libertà di espressione e la paura di una voce libera. Per tutto il film assistiamo a una continua fuga in avanti e un continuo mettergli dei freni, come alla corsa libera di un purosangue a cui vengono messe le briglie. Briglie che spesso sono abiti stretti e scomodi, lontani da quegli abiti di seta che fremono a ogni movimento che vediamo nel primo concerto di Elvis. Prima è uno smoking nero, simbolo di eleganza e anche di conformismo a certi canoni, che Parker impone a Presley per le sue esibizioni, dopo che abiti e movimenti non sono piaciuti al sistema. Un sistema a cui Elvis fa paura perché in grado si scatenare fremiti sessuali, di scardinare tabù sociali. E al colonnello Parker tutto questo fa paura solo perché potrebbe fare meno soldi. Il secondo abito è una divisa, quella del servizio militare in Germania a cui Elvis deve sottostare per sembrare, a tutti, di nuovo il perfetto americano. L'obiettivo è quello di piacere al massimo del pubblico possibile per fare più soldi possibile.

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Elvis: Austin Butler in un'immagine

La scritta Hollywood è arrugginita

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Elvis: Austin Butler in un numero musicale

A un certo punto del film vediamo Elvis sotto la mitica scritta Hollywood. Da quella collina si vede il famoso planetario di Gioventù bruciata. Ma la scritta Hollywood è ormai arrugginita. Ed Elvis, a conti fatti, non è mai diventato James Dean. Anche nella carriera cinematografica di Elvis, durata per gran parte degli anni Sessanta, si è scelta la via più facile, rassicurante, commerciale: film innocui e insulsi, in cui Elvis faceva il minimo, e in cui infilava una canzone. Certo, a volte erano canzoni immortali, come Love Me Tender e Can't Help Falling In Love. Ma, come attore, Elvis non era diventato memorabile. Così è stato ancora una volta lui a doversi liberare delle redini, a fare una sgroppata in avanti. Il famoso Comeback Special televisivo del 1968 è la chiave di tutto. È la scelta di fare la musica di casa sua, di cantare solo le cose in cui crede. Mentre il colonnello Parker, e gli studi televisivi, parte di quel Sistema di cui parliamo, tramano per fare uno speciale natalizio, con mielose canzoni su Santa Claus, mentre tutto il merchandising in bianco e rosso è pronto per essere lanciato, Elvis sceglie la pelle nera, una chitarra rossa e le sue canzoni.

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Las Vegas, la gabbia dorata

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Elvis: Austin Butler durante una scena con le fan di Elvis

È il momento della sua carriera in cui Elvis può davvero avere il mondo. Può averlo letteralmente perché i suoi concerti sono richiesti in tutto il pianeta, dall'Europa al Giappone al Sud America. Ma Elvis ancora una volta viene condotto sulla via più facile, Elvis rimane soprattutto a Las Vegas, ci rimane per anni. Il colonnello Parker, per una sua convenienza economica, decide così. Adduce motivi di sicurezza, usa la paura - un grande classico dei conformisti - per frenare ancora una volta il talento, le aspirazioni, la gloria. Elvis diventa comunque grandissimo. Ma rimane fermo, ripetendo sera dopo sera lo stesso rito, una messa laica dove è la divinità e il sacerdote. Ma dove non rischia più nulla. Las Vegas è la sua gabbia dorata. Dove lo ha rinchiuso il Colonnello Parker. È davvero lui il cattivo di questa storia? Forse sì. Ma è stato tutto un Sistema, un mondo, a ingabbiare Elvis Presley.

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Elvis: Austin Butler e Richard Roxburgh in una scena del film