Recensione Shining (1980)

Lo scrittore Jack Torrance (Nicholson) accetta, assieme alla moglie Wendy (Duvall) ed al figlioletto Danny (Lloyd), di fare da custode invernale ad un hotel deserto, l'Overlook Hotel.

Due camere all'Overlook hotel: Kubrick e King

Come per tutti i suoi film a partire da Rapina a mano armata, anche Shining nasce da un testo letterario, l'omonimo romanzo scritto da Stephen King nel 1977, autore da cui già Brian De Palma aveva tratto il suo Carrie, lo sguardo di Satana (1976).
Le differenze tra libro e film sono, nel nostro caso, davvero importanti: non solo perché molti spunti presenti nel libro sono stati accantonati nel film, ma anche, e forse soprattutto, perché alcuni spunti del film sono totalmente innovativi rispetto al libro.
Stanley Kubrick, lo sappiamo, non era persona da accettare passivamente uno soggetto in tutti i suoi particolari. Egli era interessato alla storia di King, senza ombra di dubbio, ma in essa vi scorgeva prospettive differenti rispetto all'autore del romanzo.
Il campo d'azione di King è, in primis, il racconto dell'orrore. Jack Torrance lotta, soccombendo, contro le forze del male che infestano "giocosamente" gli ambienti dell'Overlook Hotel, sciagurata costruzione edificata sulle ceneri di un vecchio cimitero indiano. L'assunto di base è semplice: l'uomo, in quel luogo, è ospite sgradito.
Confrontare il film con il libro dà l'idea di uno spostamento significativo dell'asse significante. Nel libro di King sembra esserci troppo e troppo poco. Troppo: perché King cerca di spiegare ogni atteggiamento, ogni falla, con continui flash back nel passato, cadendo spesso in banali cliché riguardo temi come l'alcolismo, l'infanzia difficile. Troppo: perché l'irrazionale tende spesso ad essere giustificato, perdendo quell'aura malefica che invece pervade il film, vero emblema dell'irrazionale, del relativismo spazio temporale. Poco: perché al libro mancano due fenomenali idee come quella del labirinto e quella della frase ripetuta ossessivamente alla macchina da scrivere. Poco: perché il finale di King non ha l'abrasiva forza, lo spiazzante guizzo del finale kubrickiano.

Disse Diane Johnson, co-sceneggiatrice di Shining:

"Il libro ha una certa tendenza a tirarla per le lunghe, utilizza spesso la tecnica del ritorno indietro: nel momento in cui abbiamo deciso (lei e Kubrick, n.d.A) di sopprimere tutti questi ritorni, abbiamo immediatamente condensato fortemente il libro [...> Kubrick ha per principio di ridurre sempre al minimo i dialoghi, di non avere che uno scheletro.

Kubrick stesso dichiara:

"Direi che la forza di King sta nella capacità di costruire trame; non mi sembra che gli importi molto della forma [...> Mi sembra uno scrittore più interessato all'invenzione di una trama, cosa in cui eccelle".

Kubrick e la co-sceneggiatrice Diane Johnson non solo snelliscono il libro sino a ridurlo ad uno scheletro portante, ma lavorano per mettere in evidenza ciò che rimane dopo l'espunzione, una specie di sotto testo pieno di spunti. L'eliminazione di tutti i flash back del libro è la differenza più palese tra testo scritto e film. Altre differenze importanti sono: l'eliminazioni delle siepi a foggia di animali che prendono vita, sostituite dal labirinto; l'imprigionamento di Jack nel ghiaccio e la fotografia su cui si chiude il film, che sostituiscono il finale "infuocato" e banalmente purificatorio di King.
King, insomma, si preoccupa di spiegare tutto. La sua intenzione è quella di non lasciare nulla di incomprensibile, di inconcludente. Kubrick ebbe modo di dire, sempre su King ed il suo romanzo:

"Stephen King si è sforzato un po' troppo di trovare delle chiare motivazioni psicologiche alla discesa di Jack nella follia".

Il lavoro di Kubrick sul libro è insomma un lavoro creativo a tutti gli effetti. Tenendone l'ossatura, egli impianta trovate assolutamente geniali e sposta l'asse del racconto dalla palese "mostruosità" del libro (l'hotel è, prima di ogni altra cosa, un luogo pieno di morte e di esseri strani) ad un più umano scandaglio della psiche di un uomo debole, messo in un contesto sbilanciato verso l'irrazionalità. Il film è la storia di un uomo debole, dedito all'alcool, un violento represso a cui bastano pochi giorni per cominciare a sentirsi pericolosamente plagiato dalla forza malefica dell'hotel. La storia di un uomo, la storia degli uomini. Perché il finale sembra dirci proprio questo: la vita è un cerchio ed il destino, spesso, morde la sua stessa coda.