Recensione Sweet sixteen (2002)

L'ultimo e irriducibile 'militante' del cinema europeo, Ken Loach, torna a girare una storia di degrado e disagio sociale in una metropoli scozzese.

Dolci, malinconici, violenti sedici anni!

Bob Williams (Piovono Pietre), Maggie (Ladybird Ladybird), Carla (La canzone di Carla), Joe (My name is Joe)e Paul, Mick e gli altri... volti, personaggi e storie di vita quotidiana che scorrono invisibili, fantasmi onnipresenti, per le strade della grigia Greenock, una cittadina lungo il fiume Clyde, non lontana da Glasgow. Sono gli amici più vicini e sinceri del giovane quindicenne Liam che sogna una famiglia che non ha mai avuto, un nido sicuro dove vivere con sua madre, sua sorella ed il nipotino e che per realizzare questo suo "normalissimo" sogno è costretto a spacciare droga.

Sono le ombre più fedeli di Jean, la madre di Liam, finita in prigione a scontare la pena al posto del suo compagno Stan e che uscirà in tempo per festeggiare con il figlio il suo sedicesimo compleanno precipitando nell'immane tragedia di scoprirsi una madre incapace di quell'amore materno di cui ha estremo ed urgente bisogno la sua famiglia. E Ken Loach racconta le loro "dolci" odissee riuscendo nell'ardua impresa di farci scorgere spiragli di luce e di speranza negli istinti puliti e nella vibrante energia di personaggi che coraggiosamente (ed inconscientemente) prendono di petto la loro vita. Sweet sixteen diventa così il racconto di formazione e di dolorosa presa di coscienza da parte del giovane Liam (l'esordiente e straordinario Martin Compston capace di reggere sulle sue sole spalle l'impietosa macchina da presa di Ken Loach) di una diversa realtà da come l'aveva sempre sognata. E se non può esserci illusione peggiore nello scoprire l'incapacità di amore di una madre forse è ancora più devastante la tragedia di un confronto con la vastità di un mondo e di un futuro che probabilmente non sanno nulla della tua esistenza.

Ken Loach (aiutato dal fedele sceneggiatore Paul Laverty) non perde così l'occasione di raccontare un'altra di queste vite invisibili e fissandola nel fotogramma di un'immagine spaventare l'immane solitudine di un'umanità che vibra e pulsa sotto le pesanti macerie di una dura e falsa realtà.