Il drago è sconfitto, il mostro ucciso, l'incantesimo spezzato. Matteo Garrone ci aveva lasciato così, con Il racconto dei racconti, fiabesco e atroce come solo le fiabe sanno essere, a sancire ancora una volta la vittoria della realtà sulla fantasia. Perché anche quando si parla di orchi, reami e magie, il cinema garroniano impone la vittoria del vero sul fantastico, si sporca le mani con un realismo atroce non privo, però, di un certo incanto. Per questo non sorprende che Dogman parta dalla cronaca, quella più vera e nera, per poi distaccarsene alla ricerca di una parabola dedicata alle contraddizioni umane. L'ultimo film di Garrone segue le orme del delitto del pugile dilettante Giancarlo Ricci per mano di Pietro De Negri, detto er canaro.
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Una storia truce, fatta di torture e sevizie, ritorsioni e crudeltà. Ma in Dogman non c'è alcuna forma di accanimento. Garrone scansa con maestria il sadismo e il malsano piacere del voyeur, e fa sì che questa triste vicenda serva da spunto per una riflessione sulla natura umana. E qui si torna alle favole e alle fiabe. Come un abile Esopo contemporaneo, il regista romano passa dall'animale per arrivare all'uomo, mette allo specchio cani e persone, gabbie di ferro e prigioni immaginarie per entrare dentro Marcello, uomo piccolo piccolo, eppure capace di qualche grandezza. Immerso nel fango di un luogo senza tempo, Dogman è uno strano impasto di crudeltà e speranza, la conferma di come Matteo Garrone sia interessato a personaggi insoddisfatti della propria condizione esistenziale, e per questo disposti a tutto pur di cambiare. Succedeva anche ai personaggi in fieri de Il racconto dei racconti e a qualche anima in pena dentro Gomorra.
Accade anche a Marcello, gestore di una toelettatura per cani, costretto al vivere nel degrado, fragile come un vaso di argilla tra botti di ferro. Schiacciato dall'irruenza dell'imponente Simone, prepotente criminale di periferia, Marcello viene coinvolto in loschi affari sempre più pericolosi, ma non dimentica mai i sogni di sua figlia, non perde mai la voglia di andare altrove. Ecco perché Dogman è uno strano impasto di candore e brutalità, un film viscerale e spietato di cui stiamo per vivisezionare gli elementi fondanti. Un'opera oscura attraversata da spiragli di luce, gioia per cinefili (e cinofili), fonte di inquietudine per ogni essere umano.
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Fango e ruggine: l'ambientazione
Un ovunque qualsiasi. Potrebbe essere qui o altrove, oggi oppure vent'anni fa. Poco importa. Privo di coordinate spazio-temporali, Matteo Garrone ambienta la sua storia in un purgatorio fangoso, un luogo che ha i connotati di un personaggio. Perché quella terra sporca e avara di speranze vincola i suoi personaggi ad un'esistenza misera e penosa, trattenendoli con la melma fetida delle sue pozzanghere e la ruggine delle sue saracinesche. Così ecco giostre abbandonate, enormi spazi vuoti, un cielo sempre grigio. Sembra di essere all'interno di un western, in uno spazio di frontiera dimenticato dal mondo dove sono riconoscibili soltanto tre cose: il negozio di Marcello, un compratore di oro e un "casinò" di serie B. In questo senso il lavoro del protagonista assume anche un significato simbolico. Se là fuori c'è un posto sporco, brutale e anaffettivo, da Dogman si dispensano pulizie, carezze e attenzioni. Grazie ad una scenografia che si fa racconto, Garrone è capace di farci percepire persino il fetore di un'ambientazione fondamentale per il suo film antropologico.
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Uomini, cani e topi: la recitazione
Simone e Marcello. Marcello e Simone. La strana coppia composta da un gigante violento e da un gracile folletto. Eppure c'è qualcosa che li lega. Pena? Reciproco interesse? Semplice prepotenza del forte sul debole? Oppure, forse, è proprio un guinzaglio. Dal basso della sua obbedienza, Marcello si lega a Simone con la stessa fedeltà con cui un cane è devoto al suo padrone. Dare senza ricevere, rispettare senza avere rispetto in cambio. Almeno sino al cambio di passo, sino a quando Marcello reagisce mosso dall'istinto di una belva e dalla dignità di un essere umano. In questo continuo parallelismo tra individui e mondo animale, Garrone si è rivolto a due attori capaci di una recitazione molto ferina. Edoardo Pesce dà forma ad un orso insolente, una bestia che non conosce branco, rispetto e buon senso. Il suo Simone agisce da solo e travolge ogni cosa senza sentire ragioni. Al contrario, la grande prova di Marcello Fonte ci conduce dentro un uomo estremamente fragile. Marcello si nutre di scarti, briciole, mangia nella stessa ciotola dei cani, quasi squittisce come un ratto costretto a vivere dentro una discarica. Ma se un attore ha davvero vissuto di stenti, immaginando applausi quando la pioggia batteva sulle lamiere della sua baracca, allora è facile scavare sino all'umanità. Lo sguardo di Fonte urla e racconta senza che la bocca proferisca parola. Attraverso i suoi occhi passano desideri e frustrazioni, rancori e speranze.
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Vicino e lontano: la regia
Avanti e indietro, vicino e lontano. Mentre il pubblico ondeggia tra empatia e distacco nei confronti dei personaggi, Matteo Garrone mette in scena una regia elastica dove primi piani e campi lunghi si alternano con maestria. Dogman ci tiene a calare i suoi personaggi dentro un ambiente determinante per le loro squallide vite, così il regista ci mostra con cura maniacale muri scorticati, terreni fangosi, abitazioni putride, negozi umidi. Poi Garrone si allontana improvvisamente da tutto questo glaciale squallore per soffermarsi sull'umanità disperata dei protagonisti. La camera insiste sugli sguardi silenti e riflessivi di Marcello e sui grugniti di Simone, abusa di primi piani stretti o strettissimi in un'alternanza continua di quiete e di irruenza. Perché, a tante panoramiche su questo purgatorio dove tutto sembra fermo nel tempo, Dogman alterna esplosioni improvvise di violenza. Questo accade grazie ad un utilizzo perfetto della tensione e dell'imprevisto, con una regia abile a catturare l'irrompere crudo, secco e spietato del male nel quotidiano. Con Dogman Garrone dà forma ad una parabola umana credibile, dove forma e sostanza sono sempre complementari, senza che l'una domini mai l'altra.
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Tra pietà e condanna
Pochi registi sanno trattare il mostruoso come Matteo Garrone. Perché i mostri, per lui, non sono mai semplici nemici da cui prendere le distanze, ma creature da esplorare sino a comprenderne le più oscure motivazioni. I mostri, in qualche modo, sono parte di noi, siamo noi, mano nella mano con le nostre assurde contraddizioni. A Garrone piacciono i racconti dal cuore nero, e Dogman non fa eccezione. La sua è una dichiarazione di intenti che parte persino dalla locandina del film. Il titolo mette subito animale e uomo uno accanto all'altro mentre la figura al centro dell'immagine è un evidente richiamo cristologico alla "passione" di Marcello. Un piccolo sognatore che aspira alle Maldive e poi si accontenta di un furtarello, un uomo asfissiato dalla delinquenza che prende ossigeno solo quando si immerge sott'acqua con sua figlia, un assassino capace di un tenero gesto di altruismo nei confronti di un cane. Così Marcello diventa l'emblema della nostra natura spesso insondabile. Un paradosso in eterno bilico tra la condanna e la pietà. Questo fragile e forte dogman, né super, né eroe, è una contraddizione, imprevedibile e instabile, detestabile e amabile, proprio come ognuno di noi.