14 gennaio 2016, nelle sale italiane arrivava Creed - Nato per Combattere, l'ultima fatica di Sylvester Stallone, che sorprendeva i fan della saga immortale di Rocky Balboa, con uno spin-off in cui facemmo la conoscenza di Adonis Johnson, figlio illegittimo del grande Apollo Creed, fraterno amico e grande rivale dello Stallone italiano. Trentenne con un posto sicuro in un'azienda, Adonis decide di darsi al pugilato, di percorrere le orme del defunto padre, chiedendo a Rocky, ormai vecchio e stanco, di dargli una mano. Sarà l'inizio di una rinascita personale per entrambi, di una direzione da dare alle loro vite, così come di superare avversità e paure. Ma dietro, in quel 2016, vi era anche altro, vi era un passaggio di testimone dall'America bianca dei boomer, a quella 2.0 multiculturale del 2000.
I due volti di un paese in crisi d'identità
Se Rocky non era solo un film sulla boxe, lo stesso principio si può applicare per Creed - Nato per combattere. In entrambi i film, preponderante era la dimensione simbolica del protagonista. Rocky Balboa era un bullo di quartiere, un pugile disastroso nella capitale della boxe americana: Philadelphia. Un perdente, che improvvisamente trovava qualcosa in cui credere: se stesso. Creed abbracciò il medesimo sogno tutto americano di riscatto e successo, lo modellò sul cipiglio di Adonis (Michael B. Jordan), figlio nero dell'America del terzo millennio. L'America era sopravvissuta alla Grande Depressione del 2008, ma era ancora ferita, ancora distrutta nell'animo non meno di quella che Stallone ci aveva mostrato nel 1978.
Quell'America, era quella tradita da Nixon, in cui miseria, disperazione e la tragedia del Vietnam, avevano tagliato le gambe all'opinione pubblica. Rocky ebbe successo a suo tempo anche per questo, per mostrare un perdente che si risollevava, che ricominciava a correre, a lottare. Creed appartiene alla fine del regno di Obama, in un'America che nonostante tutto (e si è capito tragicamente in questi anni) non ha assolutamente sconfitto razzismo e diseguaglianze. Il film si riallineò alla sensibilità moderna nell'offrirci la rivincita della dinastia Creed, del simbolo di quella comunità afroamericana, che la saga di Rocky aveva da una parte rivelato al mondo, nobilitato, ma dall'altra (volontariamente o meno) anche messo in disparte, durante gli anni del Reaganismo.
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Quando l'America era ancora dei bianchi
Muhammad Ali, al contrario di quanto molti ricordano, era sì amato, ma anche incredibilmente odiato dall'opinione pubblica americana e da una fetta del mondo della boxe. La sua oratoria, il suo impegno politico, il rifiuto di andare in Vietnam, l'essere un Black Muslim, lo fecero diventare il nemico numero uno dei conservatori. Si tratta di qualcosa che è durato a lungo, così come la speranza di riavere un campione bianco sul tetto del mondo. Tante "speranze bianche" (white hopes) fallirono nel tentativo di scalzare Alì dal trono. Rocky Balboa si ispirava ad una di queste: Chuck Wepner, che nel 1975, riuscì anche ad atterrare fortunosamente Alì, ma venne da questi seppellito di pugni e abbattuto a pochi secondi dalla fine. Stallone, nel 1976, dette ad una parte di pubblico, ciò che sognava: una white hope che trionfava. Apollo Creed, era chiaramente Alì, privato della dimensione politica a favore di quella di star e divo alla Sugar Ray Leonard (che in quegli anni dominava la boxe). Creed-Alì venne quasi abbattuto da un pugile bianco, con cui Stallone riportò la boxe ai tempi in cui gli afroamericani non erano i re, ma lo erano i bianchi come Jack Dempsey, Gene Tunney, Rocky Marciano o Jim Braddock. L'America bianca trionfava sul ring della fiction, si consolava con Rocky, non potendo battere Alì nel mondo reale.
Da Rocky a Creed: la saga cult tra realtà e finzione
Creed e la riscossa della comunità nera
Creed è stato quindi sicuramente un giusto risarcimento, connesso ad un'America che dal punto di vista demografico e culturale è cambiata moltissimo. Adonis Creed fu ciò che era stato Rocky per il pubblico bianco: il re che non avevano. La boxe negli anni 2000, non è più "affare" degli afroamericani, soprattutto i pesi massimi sono stati il regno di pugili europei e bianchi (i Klitschko hanno dominato per 11 anni). Creed mostrava un ragazzo che rifiutava la sua vita di privilegiato, abbracciava un'inversione del processo di rivalsa sociale, mostrando il giovane, mentre si faceva un nome in Messico, in quel paese dove da decenni milioni di disperati (i "nuovi" afroamericani) fanno di tutto pur di fuggire, in cerca di una possibilità nel paese delle opportunità. Se Rocky era un bullo di un quartiere bianco ed alcolizzato, Creed sceglierà di stare in un ghetto di disperati, e quando Rocky lo allena come Mickey allenava lui, avrà gli stessi problemi legati ad una tecnica non eccelsa. E chi è l'avversario di turno? Casualmente un pugile bianco, quel Ricky Conlan (il campione inglese Tony Bellew) arrogante e sicuro di sé, che però sarà costretto agli straordinari per vincere contro Adonis. Si perché, come nel primo Rocky, il protagonista perde, ma con onore, dimostra a se stesso che è qualcuno, che vale qualcosa, che quel cognome, Creed, non è solo un caso.
Le strade rimangono il ring dell'America
Sono passati cinque anni dall'uscita al cinema di Creed, che correva sulle orme di Rocky, saliva le stesse scale, portava la bandiera americana contro la malasorte in terra straniera. Ma soprattutto si collegava alla stessa visione della vita e della società del pugile italo-americano, sferzava il materialismo, il culto del successo, abbracciava la necessità di conoscersi e accettarsi. La comunità afroamericana di quel 2015, aveva il suo Presidente, si era accontentata di questo, aveva smesso di combattere, pensava che la rivoluzione, l'eguaglianza, sarebbero venute da sé. Errore fondamentale, ci ricordò Creed, perché la realtà della società americana è fatta di lotta, di contrapposizione, di saper uscire dai palazzi del "sistema" come Adonis, tornare nelle strade, non dimenticarsi che è da lì che si viene e ancora oggi è lì che molti stanno. Un film generazionale anche, con le chiavi del futuro che Stallone, con il suo italo-americano malato ma incredibilmente umano e compassionevole, cede nelle mani della nuova società, dei nuovi trentenni, alle prese con battaglie antiche e moderne assieme. L'American Dream, la battaglia per un futuro migliore, passa definitivamente nella mani della comunità nera, la stessa che in questi mesi è scesa nelle stesse strade su cui correva Rocky, per vincere il suo match.
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