Era il 2011 quando alla Mostra del Cinema di Venezia Steven Soderbergh presentava il suo nuovo film, Contagion, interpretato da un cast stellare che, al netto delle recensioni con pareri misti, avrebbe sorpreso pubblico e critica. Perché non era solito vedere un film dove quello che sembrava uno dei nomi più importanti stampato nella locandina veniva fatto fuori nel giro dei primi dieci minuti. E non era solito vedere l'argomento trattato in maniera così scientifica e realistica. Nove anni dopo, il film di Soderbergh, oltre a risultare un'opera profetica sotto molti aspetti, ha il pregio di rimanere un film potente e un'esperienza di visione sorprendente che si conclude con un messaggio, nascosto tra le righe della narrazione, capace di colpirci. Ecco perché ha senso approfondire un film che sta vivendo una seconda giovinezza come succede ai piccoli cult e perché riteniamo di dover condividere con voi lettori i motivi per cui il significato del finale trova la sua completezza al di fuori di Contagion.
Un film oltre i generi
Lo schermo nero. Un violento colpo di tosse, così forte da sembrare uscire dal nostro vicino di posto invece che dalle casse audio del televisore. Contagion inizia in questa maniera fastidiosa e brutale facendoci provare subito un leggero senso di disagio che si amplificherà per tutta la prima parte del film. Se i loghi delle case di produzione e distribuzione ci avevano coccolato facendoci credere di star assistendo a un film tutto sommato di finzione, quel colpo di tosse iniziale rompe subito il patto con noi spettatori, ci disturba immediatamente, innervosisce la nostra calma e ci prepara inconsapevolmente a un viaggio sofferente. La prima parte di Contagion è un film dell'orrore composto da colpi di tosse che sembrano rompere le trachee degli attori, bava, febbre, tremolii e morte. Il tutto raccontato attraverso gesti quotidiani: mani che toccano oggetti, si infilano in bocca, si stringono tra loro, si appoggiano ai sedili dell'autobus e la macchina da presa di Soderbergh che, con precisione, con uno stile asciutto, matematico, come a voler sottolineare l'inesorabilità del contagio, indugia sulla ciotola di noccioline, sui touch screen, sulle fiches di un casinò. Ha l'atmosfera e la stessa aurea di fatalità di un film horror, ma inserito completamente nel realismo e nella quotidianità, senza che ci sia un minimo aspetto cinematografico appartenente al genere che possa ricostituire quel patto distrutto prima ancora di vedere il primo fotogramma del film e, in un certo senso, tranquillizzarci che stiamo vedendo solo un film.
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Nessuno è al sicuro
Un altro gioco metalinguistico che il film instaura con lo spettatore, sempre con l'obiettivo di lasciar provare sotto traccia una specie di innaturale disagio, è negare l'aspettativa della locandina. Quando si ha a che fare con un cast composto da star del calibro di Gwyneth Paltrow, Kate Winslet, Matt Damon, Jude Law, Marion Cotillard (ne citiamo solo alcuni) ci aspettiamo che nel mondo di finzione del film questi siano i nostri modelli, i personaggi nel quale identificarci e trovare in loro dei punti di riferimento (al di là che interpretino eroi positivi o viscidi approfittatori). Invece Soderbergh non si fa problemi a far uscire di scena le star del film, in maniera inaspettata e glaciale, come a sottolineare che il racconto in maniera iper-realistica dello sviluppo di una pandemia comporta anche la morte delle star. I punti di riferimento si perdono e così inizia il caos, la sorpresa, la difficoltà nel ritrovarsi a gestire una situazione da impreparati che è poi il modo in cui si svolge la storia del film. Il capolavoro dello sceneggiatore Scott Z. Burns sta proprio nel rispettare le dinamiche di una vera pandemia, raccontandone le vere conseguenze nella maniera più antispettacolare e fedele possibile.
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La crudele insensatezza della vita
Ci sono varie storyline nel film che non s'incastrano spesso tra di loro e non rispecchiano le regole di quello che un ottima sceneggiatura di finzione dovrebbe rispettare. I personaggi non hanno dei veri e propri archi narrativi compiuti e non sempre le loro storie hanno lo stesso peso nell'economia della storia. Prendiamo due personaggi come esempio: la dottoressa Erin Mears, interpretata da Kate Winslet, sembra essere a inizio film la protagonista assoluta. È lei che deve cercare di risalire alla causa del virus ed è lei che ha il compito di introdurre lo spettatore alle dinamiche di un contagio (addirittura spiega didascalicamente, con tanto di schema alla lavagna, cosa significa il termine "R0"). Improvvisamente, però, si ammala e muore poco dopo senza che la sua storia abbia una vera e propria fine. La sua morte è messa in scena in maniera asettica, il suo corpo finirà nelle fosse comuni: è solo un'altra vittima. Anche il blogger cospirazionista Alan Krumwiede (Jude Law), una volta arrestato sembra che sarà punito per le sue azioni di frode. Invece la cauzione per essere rilasciato verrà pagata dai suoi affezionati lettori e lui tornerà alla vita di sempre, impunito, senza che ne abbia tratto alcun tipo di insegnamento morale o punizione di contrappasso. Contagion mette in mostra l'assenza di una giustizia divina che solitamente è ben presente nei film americani: è, invece, il racconto di casualità (il "viaggio" del virus fino al paziente zero poco prima dei titoli di coda è proprio questo), di crudeltà impunita, o in altre parole, della vita vera che non rispetta le leggi cinematografiche.
Basta poco nel finale
Ciò che cambia le carte in tavola è il finale del film. Sia chiaro, non che si rinneghi quanto detto sopra, ma con la storia di Mitch Emhoff (Matt Damon) e sua figlia Jory il film capovolge il significato di quei piccoli gesti che avevano causato il dilagarsi della malattia. Dopo più di 140 giorni di prigionia (come li descrive Jory via sms) un momento di felicità è dato dall'amore del padre che ricrea, nel salotto di casa, il ballo studentesco. È dato dalla dottoressa Leonora Orantes (Marion Cotillard) che si allontana dal suo "salvatore" dopo aver scoperto che aveva dato semplici placebo per la sua liberazione. O dalla decisione senza indugi della dottoressa Ally di diventare cavia di sé stessa e iniettarsi il vaccino in modo da poterlo produrre più velocemente in caso di successo. Ed è dato dalla stretta di mano tra il dottor Ellis Cheever (Laurence Fishburne) e il netturbino, il gesto più quotidiano e normale, il gesto che aveva dato avvio al contagio. In quella stretta di mano si nasconde il gesto della pace, della fratellanza, dell'unione. Lo stesso gesto che, tramite due significati opposti, dà inizio e fine al film. In mezzo, quando le strette di mano sono vietate per evitare il contagio, sta il racconto del caos e della morte. Come a dire che è l'unione e non la divisione, l'avvicinarsi e non la distanza, che permette alla razza umana di sopravvivere.