Recensione Il suo nome è Tsotsi (2005)

Discesa negli inferi di una periferia sudafricana, limbo infernale di una società complessa, e breve tratto di strada con un piccolo gangster, tra crudeltà, compassione e fragilità

City of Tsotsi

In un'edizione in cui le nominations degli Oscar risultano particolarmente opache e conformiste, emerge in controtendenza la categoria Miglior Film Straniero. Oltre ai trascurabili Joyeux Noël - Una verità dimenticata dalla storia e La bestia nel cuore, troviamo il rigorosissimo e dreyeriano La rosa bianca - Sophie Scholl, il folgorante Paradise now, e questo Il suo nome è Tsotsi, del sudafricano Gavin Hood.

Una competizione sicuramente di livello, in cui Tsotsi spicca per potenza visiva e, allo stesso tempo, delicatezza nell'affrontare temi e nel costruire sequenze e accostamenti d'immagini.
Un piccolo gangster della periferia sudafricana che, rubando una macchina, si troverà a dover fare i conti con un frugoletto a cui non sa badare, ma del quale, per ragioni oscure e profonde, non si vuole disfare.
Film deciso e garbato, dunque, che si addentra nei bassifondi della metropoli sudafricana, andando a esplorare le banlieus di Città del capo, dedalo di miseria e drammi, sociali e personali, che il regista affronta in modo originale. Non ci viene mai offerta una visione globale del labirinto in cui David (alias Tsotsi) si trova a muoversi.

Mai una dolly a salire, ad elevarsi sopra le lamiere delle baracche, a offrirci uno sguardo della "socialità" dell'ambiente. La visione è solamente quella della consuetudine di vita del protagonista. Il "milione di persone", così come viene ricordato da un personaggio, che formicola nel caos della metropoli degli straccioni, diventa argomento di pura narrazione, di sentito dire. L'unica visione che ne abbiamo è da una mullhollande drive, separata dal mondo dei morti da una scarpata di marciume e immondizia, nella quale rotolare/correre, così come faceva la protagonista del film di Lynch, ma questa volta non accidentalmente, bensì per necessità.
Operazione questa che Hood sviluppa magistralmente, isolando il "set" in cui muovere il suo protagonista, rendendolo quotidiano e familiare al suo pubblico. Riesce così a creare un fortissimo contrasto tra quella che è una semplicità nelle piccole cose, e il ricaduto di quella semplicità, spesso esasperata e snaturata, nel mondo "esterno".

Il regista si serve anche dell'accortezza di sbilanciare l'immagine (usa molti piani americani) quando vuol indicare situazioni difficili o comunque in via di composizione, per contrapporle, con tecniche di montaggio "invisibili", a immagini perfettamente equilibrate e composte, segnali evidenti di identità di punti di vista personaggio/regista.
L'unica strada che conosciamo della baraccopoli è quella che porta dal tugurio di Tsotsi alla casetta di Maria. Gli unici ambienti che riconosciamo sono quello della stanza da letto della ragazza, del letto marcio del piccolo gangster, del bar delle bevute e delle risse. Tutto il resto rimane un passo fuori dalla porta, eppure ci si affaccia prepotentemente. Sarà infatti un volto così limpido e pulito come quello di un bambino, e il rapporto con una donna, specchio di quel volto, a estirparlo prepotentemente dai suoi squallidi wargames, per rigettarlo nelle braccia di una realtà tanto dura, quanto pulita e coerente.

Si coglie così prepotentemente la malinconica ironia di Gavin (che riprende e riadatta un romanzo di Athol Fugard), che intitola "Gangster" (questa la traduzione del titolo originale) un film su un ragazzino di strada, incorniciando la pellicola con un primo piano iniziale di quello che, apparentemente, dovrebbe essere il più duro tra i duri, e chiudendola con quello stesso volto solcato dalle lacrime, in un pianto che implora la restituzione di un'infanzia perduta.