Recensione Time (2006)

Con 'Time', cambiando registro e riplasmandosi nella forma, il cinema di Kim Ki-duk ha mantenuto quella radicalità di contenuti che lo rende oggi così necessario.

Cinema in perenne mutazione

E' un'ossessione sempre presente, quella del tempo che passa, tale da pervadere ogni aspetto della vita umana: è l'ossessione che sta facendo naufragare il rapporto tra Ji-woo e Seh-hee, che attanaglia in special modo la ragazza e la porta sull'orlo del baratro. Incapace di distaccarsi dal pensiero per cui lo scorrere del tempo raffredderà e farà infine morire la sua relazione con Ji-woo, Seh-hee giunge a una decisione drastica: una plastica facciale completa che la trasformerà in un'altra donna. Per far questo, la ragazza sparisce per sei mesi, il tempo che serve affinché il suo nuovo volto sia plasmato. Nel frattempo, Ji-woo si dispera e reputa infine Seh-hee perduta per sempre: fino all'incontro con una nuova, misteriosa donna.

C'era molta attesa e curiosità intorno a questa nuova opera di Kim Ki-duk, arrivata ad un anno di distanza dal precedente L'arco: il regista coreano sembra aver diradato di molto il ritmo delle sue regie (tra la fine del 2003 e il 2004 erano usciti Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, La samaritana e Ferro 3 - La casa vuota), forse consapevole dell'importanza che oramai il suo cinema riveste per un pubblico sempre più nutrito e attento. La curiosità derivava anche dai segnali, ravvisati nel film precedente, dell'inizio di una certa tendenza alla "maniera", a una ripetizione un po' compiaciuta di stilemi e artifici estetici che poteva preoccupare chi, del cinema di Kim, aveva apprezzato soprattutto il taglio personale e l'originalità con cui si approcciava a certi temi. Da questo punto di vista, possiamo tirare un sospiro di sollievo e dichiarare il pericolo scampato: Time è un film diverso, probabilmente l'inizio di una nuova fase per il cinema del regista, che tuttavia si inserisce perfettamente in una poetica ben delineata e fondata su temi forti mai rinnegati.

Parte con le immagini dal vivo di un'operazione di chirurgia plastica, Time, immagini impressionanti, cruente, quasi a ribadire il vecchio assunto del cinema di Kim: il desiderio (in questo caso quello di Ji-woo, che Seh-hee vuole difendere dall'attacco mortale del tempo) non può mai essere disgiunto dalla violenza (violenza fisica contro la carne, ma anche, e soprattutto, violenza psicologica contro l'identità). Un assunto che qui genera una spirale senza fine, che modifica radicalmente le coordinate della percezione dell'altro e ci fa interrogare sullo scarto tra l'immagine che ci plasmiamo mentalmente della persona desiderata, e la sua (mutevole) realtà. Alla ricerca, disperata e vana, di un'essenza che sovrasti la materia cangiante e instabile dell'essere umano, che faccia da comune denominatore alle diverse forme in cui esso appare: proprio l'anima, forse, di cui Kim, con un materialismo per lui inedito, sembra qui voler negare l'esistenza. Così, al pirandelliano Uno, nessuno e centomila, il regista coreano fa corrispondere una tesi ben più problematica: nessuna delle diverse percezioni dell'individuo da parte di chi con lui interagisce può cogliere in minima parte una realtà che, per sua natura, è in continua trasformazione, rimodellamento, ridefinizione.

Per portare avanti questi temi, Kim adotta un registro che, per quanto paradossale possa apparire, è più "classico" rispetto alle sue opere precedenti: i dialoghi sono presenti in numero enormemente maggiore, l'ambientazione metropolitana è la negazione del microcosmo (spesso spopolato) in cui vivevano molte delle sue storie più riuscite. La semplicità di quello che in un primo momento può apparire come un melodramma orientale come tanti altri viene progressivamente complicata dal modo in cui la sceneggiatura smonta e rimonta la storia, mescolando le carte e disintegrando quelle certezze che, come il film sembra voler dimostrare, vivono di pura illusione. Così, cambiando registro e riplasmandosi, esso stesso, nella forma (e come potrebbe essere altrimenti?) il cinema di Kim Ki-duk ha mantenuto quella radicalità di contenuti che lo rende oggi così necessario: sfuggente a ogni classificazione, destabilizzante e unico.

Movieplayer.it

3.0/5