Un genere quale l'horror, alla continua ricerca di nuovi stimoli e territori da esplorare (e abbiamo parlato più volte delle sue due tendenze complementari, ovvero l'innovazione e il conservatorismo), negli scorsi anni ha rivolto spesso la propria attenzione a quello che, da un punto di vista sociologico, è di gran lunga il fenomeno di maggior rilievo da almeno un decennio a questa parte: la diffusione dei social network e il ruolo preponderante che la comunicazione via internet ha assunto nella nostra esistenza.
Internet, del resto, costituisce uno degli aspetti fondamentali della nostra vita quotidiana: per molti di noi a livello professionale, per quasi tutti noi pure nelle relazioni sociali, che volenti o nolenti oggi passano in gran parte (in alcuni casi, soprattutto) attraverso la rete. E il cinema, ovviamente, non poteva non essere contagiato da un elemento tanto importante, se non addirittura emblematico della nostra epoca: e fra i vari generi che hanno provato a raccontare il nostro rapporto con il web e i social media, l'horror occupa senz'altro un posto di rilievo. A tal proposito l'ultimo titolo, in ordine di tempo, è Friend Request - La morte ha il tuo profilo, film di produzione tedesca scritto e diretto da Simon Verhoeven e in uscita nelle nostre sale l'8 giugno.
Verrà la morte e avrà il tuo profilo
Friend Request parte da interrogativi che tutti coloro che frequentano i social network si sono posti (o dovrebbero porsi) più e più volte: qual è il "codice di comportamento" più corretto laddove le nostre interazioni con l'altro sono filtrate interamente attraverso internet? E in quale misura una richiesta d'amicizia approvata o respinta può influire sulla nostra privacy e sul modo in cui scegliamo di 'proporci' al mondo esterno?
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Dubbi e interrogativi che possono apparire di scarsa importanza (e generalmente lo sono), ma il cui esito talvolta può portare ad effetti inaspettati o, nei casi più estremi, provocare addirittura delle autentiche degenerazioni. Già due anni fa, comunque, il cinema horror aveva tentato un'incursione nel campo dei social network, con presupposti molto simili a quelli di Friend Request ma con un approccio narrativo ancora più estremo: stiamo parlando di Unfriended di Levan Gabriadze, del 2014 (fra l'altro, Unfriend è il titolo originale per il pubblico tedesco di Friend Request, modificato all'estero proprio per evitare confusione fra le due pellicole).
Anche in quel caso, il punto di partenza della trama era legato a come, paradossalmente, i social media possano alimentare episodi di emarginazione e di bullismo, dal momento in cui una studentessa di liceo, Laura Barns (Heather Sossaman), si toglieva la vita a causa della diffusione su YouTube di un video umiliante che la mostrava ubriaca; un anno più tardi, questo tragico gesto riemerge all'improvviso a sconvolgere le vite di alcuni compagni di scuola di Laura durante una chat di gruppo. La caratteristica peculiare di Unfriended, al di là del discorso sulle possibili derive di internet, riguarda però le modalità della messa in scena: il film è costruito interamente sulle immagini del dekstop del computer della protagonista, Blaire Lily (Shelley Henning), mostrando pertanto le sue interazioni internautiche con altri cinque amici e con un utente misterioso firmato billie227. Peccato però che il potenziale di originalità nell'approccio al racconto si esaurisca in fretta, scivolando ben presto in una ripetitività ben poco efficace e rivelando la sostanziale sterilità del film stesso, davvero poco convincente.
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Internet, bugie e videotape
La curiosità del cinema nei confronti della realtà virtuale di internet (e dell'area social nello specifico) non si è limitata però all'horror, ma ha abbracciato pure generi diversi, dal dramma alla commedia. Nel 2010 ad esempio, nel pieno dell'esplosione della popolarità di Facebook, il regista giapponese Hideo Nakata, specialista però proprio del genere horror (e forse non è un caso), si basava su un testo teatrale di Enda Walsh, Chatroom, per realizzare un thriller dall'ambientazione assai atipica: I segreti della mente, infatti, come indica il titolo originale si svolge quasi del tutto all'interno delle chatroom, ancora piuttosto diffuse all'epoca (mentre oggi, a testimonianza della rapidità nell'evoluzione dei social media, sembrano quasi del tutto scomparse). Aaron Taylor-Johnson interpreta il ruolo di William Collins, adolescente di Chelsea, disadattato e con tendenze autolesioniste, che decide di sfogare la propria depressione nel dialogo virtuale con quattro suoi coetanei sconosciuti; ma il tentativo di condividere i rispettivi problemi sfocerà in un meccanismo di sudditanza psicologica gravido di rischi.
Dall'ambito della socialità sul web ci spostiamo ora verso fenomeni pur sempre collegati ad internet come "villaggio globale", in cui la riservatezza - e la segretezza - sono beni preziosi nonché oggetti di violazioni e diffusioni indesiderate. E il cinema dell'ultimo lustro ha affrontato questo peculiare aspetto nelle maniere più differenti, dalla docu-fiction alla comicità. Fughe di notizie e rivelazioni scottanti diffuse urbi et orbi mediante gli strumenti di internet, del resto, hanno aperto per mesi giornali e notiziari televisivi in seguito al clamoroso caso WikiLeaks; e alla figura di Julian Assange e alla pubblicazione, nel 2010, di una quantità impressionante di documenti relativi alla diplomazia statunitense e mondiale (il cosiddetto cablegate) è stato dedicato nel 2013 il film Il quinto potere (titolo emblematico ma poco adeguato, data la sovrapposizione con il ben più celebre Quinto potere), diretto da Bill Condon e con protagonista Benedict Cumberbatch. Dai pubblici scandali sulla politica mondiale ai piccoli scandali di singoli individui: nel 2014 è la commedia Sex Tape - Finiti in rete, per la regia di Jake Kasdan, a irridere la moda dei filmini erotici "fatti in casa", con Cameron Diaz e Jason Segel nei panni di una coppia che, per errore, diffonde sul web un video osé che sarebbe dovuto restare privato.
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L'amore (e la solitudine) ai tempi di Facebook
Parlando di cinema, internet e social media, un'altra tematica verso cui diversi film hanno puntato lo sguaro è il paradosso insito nell'essenza stessa del web: quella bizzarra commistione fra la volontà e l'esigenza di aprirsi a un 'auditorio' quanto più vasto possibile e le barriere di una solitudine che, talvolta, la rete non fa altro che accentuare. Questo è uno degli aspetti rintracciabili, in filigrana, nell'insuperato capolavoro dedicato al fenomeno della socialità in rete: The Social Network, il film del 2010 di David Fincher sceneggiato da Aaron Sorkin e ricompensato con tre premi Oscar (fra cui proprio quello per il magnifico script di Sorkin).
Se The Social Network costituisce una sapiente ricostruzione della nascita di Facebook e un intrigante ritratto del suo creatore, il giovane e ambizioso Mark Zukerberg (Jesse Eisenberg), il valore della pellicola va al di là della sua superba cronaca di una svolta epocale per il nostro stile di vita: perché all'interno di The Social Network si può cogliere pure una riflessione amarissima sui social media come compulsiva forma di reazione ad un senso di isolamento, di alienazione e di rifiuto contro il quale, però, non basterebbero neppure cinquecento milioni di 'amici'.
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Sulla scia di The Social Network, nel 2012 è approdato al Festival di Venezia l'interessante Disconnect, film indipendente dell'esordiente Henry Alex Rubin, in cui prosegue l'analisi del ruolo di Facebook e di altri canali analoghi nel mondo contemporaneo, ma anche l'osservazione del disagio, della solitudine e della violenza che talvolta emergono dalle varie aree del web. Attraverso una struttura drammaturgica corale, Disconnect illustra realtà controverse e spesso di ardua decifrazione che vanno dal cyberbullismo alla prostituzione online, non rifuggendo dagli aspetti più oscuri di questa 'connessione' fonte di minaccia o di malessere. Facebook come valvola di sfogo per l'esibizionismo, ma anche per le silenziose frustrazioni dei giovanissimi è presente inoltre, e non a caso, nel più recente film di Sofia Coppola, Bling Ring del 2013, in cui gli avventati ladri teenager conferiscono notevole attenzione all'immagine di loro stessi promossa tramite i canali social.
Decisamente curiosi, infine, due esperimenti cinematografici sempre legati al ruolo di internet come veicolo di connessione con il mondo esterno, usciti entrambi nel 2010. Catfish, firmato da Henry Joost e Ariel Schulman, è un bizzarro documentario incentrato sulla reale esperienza di Nev, un giovane fotografo newyorkese osservato nelle varie fasi della sua costruzione di un rapporto 'a distanza' con una donna conosciuta su Facebook, illustrando così ansie, timori, piccole bugie e mezze verità di cui i social network sono divenuti una sorta di caleidoscopio. Life in a Day, progetto lanciato e portato a compimento dal regista Kevin Macdonald, è invece una raccolta di clip postate su YouTube in risposta a tre questiti (Cosa ami? Di cosa hai paura? Cos'hai in tasca?), montate insieme per andare a comporre un affresco corale di una singola giornata mediante centinaia e centinaia di 'frammenti' di una variegata umanità.