Recensione Il cartaio (2003)

Che fine ha fatto il vero Dario Argento è la prima domanda che angoscerà lo spettatore al termine della visione de Il Cartiaio, dov'è il suo marchio, dov'è la sua classe e la sua abilità

Chi ha paura di questo cartaio?

Che fine ha fatto il vero Dario Argento è la prima domanda che angoscerà lo spettatore al termine della visione de Il cartaio, dov'è il suo marchio, dov'è la sua classe e la sua abilità. La successiva atroce questione sarà: ma è questo il Dario Argento migliore che dobbiamo aspettarci? E' un declino segnato, il suo?

Tristi dilemmi, ma reali, inevitabili, al termine di un film di discreta fattura tecnica e di francamente inguardabile costruzione narrativa. Se, di frequente, il cinema del regista capitolino, ha mostrato di essere leggermente sbilanciato sotto il profilo dell'invenzione registica e di puntare agli aspetti emozionali e d'impatto, rispetto agli sviluppi del plot (a volte semplicemente pretestuosi), qui la forbice si allarga all'infinito. Non c'è più mistero, curiosità, azzardo e nemmeno mestiere, ma solo la pedissequa ricerca dell'effettaccio e del macabro, come nelle accurate ispezioni della medicina legale sulle vittime.

Quella che manca è la credibilità, o se preferite il pretesto stesso. E se neanche questo si chiede ad un film, possiamo aggiungere che manca anche la suspance e che dopo neanche metà film, l'identità dell'assassino è chiara come le tendenze imperialiste della Germania di Bismarck. Se il male, come sostiene Argento, è perenne e si manifesta in contesti diversi ma sotto le medesime fattezze, il videopoker in rete con un corpo di polizia dietro un pc a tifare su chi fa il punto più alto tra un ragazzino insopportabile e un maniaco scialbo, non fa paura, ma genera noia.

E non basta avvalersi, come sempre, del criminologo Vincenzo Mastronardi, per penetrare l'inconscio dello spettatore e metterlo sulla stessa linea d'onda del serial killer più banale e poco credibile che si sia visto al cinema di recente. Se, difatti, l'impianto formale rimanda al thriller americano (Il silenzio degli innocenti e Seven sembrano essere le coordinate di riferimento), la cura della sceneggiatura è inferiore a quella del peggior slasher movie che si ricordi.

E' doveroso a questo proposito accennare alla scrittura dei dialoghi e alla loro delirante bruttezza, che ha come unico risultato quello di scatenare tra il pubblico delle grasse ed involontarie risate, che lasciano alquanto interdetti. A parziale giustificazione di questa tendenza del film, va detto che la pellicola è stata girata originalmente in inglese e poi ridoppiata dagli stessi interpreti in italiano e che questo procedimento (purtroppo non nuovo, specie nell'horror italiano, che è più apprezzato all'estero) di certo non favorisce la qualità dei dialoghi. Se poi, a dare forza a questi dialoghi sono chiamati attori decisamente fuori luogo, il risultato non può che essere deficitario.

Per il resto che dire. La cifra tecnica del film, come si accennava in apertura non è malvagia; che Dario Argento sia capace di girare un film non è una novità, che sia in grado di alzare il livello della tensione e di giocare sul montaggio sono altrettanti elementi che possiamo dare per scontati, come la partecipazione del grande Claudio Simonetti alle musiche (meno avvincenti di altre occasioni, comunque). Meno scontata è parsa la scelta (azzeccata questa, fortunatamente) di affidare la fotografia a Benoit Debie, esperto direttore dei progetti Dogma. La sua ammaliante fotografia antinaturalistica è probabilmente il contributo più consistente al fine di dotare il film di un'atmosfera orrorifica.