E' difficile scrivere qualcosa su Carlo Verdone nel giorno del suo sessantesimo compleanno, senza risultare compiacenti. Non è questo il tempo delle agiografie, anche perché il regista capitolino tutto è tranne che un santo (per fortuna). Si può partire dalla sua storia, allora. Carlo Verdone nasce a Roma e della Capitale incarna lo spirito più vero, quello indolente e pigramente intellettuale, ma anche genuinamente sincero. Si innamora della settima arte grazie alla cinepresa 8 mm che gli regala il padre, lo storico del cinema Mario Verdone, scomparso nel 2009. Quella passione è forte a tal punto da spingere Carlo, una volta completati gli studi, a iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia. La sua grande capacità interpretativa, fiorita negli anni '70 sui palcoscenici dei teatri off della capitale, è solo il segno manifesto di un'eccezionale poliedricità, ma non il vero amore di Verdone. Anche il debutto televisivo in quella grande fucina di talenti comici che è Non Stop di Enzo Trapani viene visto come il tramite più veloce per arrivare a sedersi dietro alla macchina da presa. Percorso che si realizza nei primi anni '80 quando il leggendario Sergio Leone lo contatta per farlo debuttare sul set ("Devo ancora capire perché mi fai ridere", dice il regista al giovane comico tremante di fronte alla scrivania del genio al lavoro). Di lì a poco, separati di un anno l'uno dall'altro, arrivano due classici della produzione di Verdone, Un sacco bello e Bianco, rosso e Verdone.
Poi il salto verso una comicità più matura quella di Borotalco, il suo primo vero banco di prova, e di Acqua e sapone; c'è spazio anche per la delicatezza di Io e mia sorella e l'amarezza di Compagni di scuola, forse la sua opera più complessa. Gli anni '90 di Verdone si aprono con Stasera a casa di Alice nel segno della donna perturbante (discorso che viene in parte ripreso in Maledetto il giorno che t'ho incontrato, Perdiamoci di vista e Sono pazzo di Iris Blond) e trovano il loro punto più alto in Viaggi di nozze. I tempi si mostrano in tutta la loro barbarie, con personaggi atroci (i coatti Jessica e Ivano o il famigerato prof. Cotti Borrone) che sono a loro agio tra volgarità e assenza di affetti. La parabola del Verdone autore, nonostante lo straordinario successo del film al botteghino, sembra però leggermente in flessione (salvo qualche sprazzo di comicità, i successivi Gallo Cedrone e C'era un cinese in coma non brillano più come un tempo). Nel 2000, però, il regista cambia marcia, tornando a temi più familiari e alla sua critica (mai ferocissima) verso i nuclei borghesi; sono gli anni di Ma che colpa abbiamo noi?, L'amore è eterno finché dura e Il mio miglior nemico, un tris di commedie che segna prima di tutto l'addio alla Cecchi Gori e l'inizio di un fruttuoso sodalizio con Aurelio De Laurentiis e Warner Bros, sodalizio incrementato dalle ultime fatiche Grande grosso e Verdone e Io, Loro e Lara.
Il tesoro di Carlo
Se un merito ha Carlo Verdone è quello di aver fatto compiere un piccolo, ma significativo, salto di qualità al cinema "popolare", grazie alla sua indubbia capacità di tracciare i confini di un territorio non più (solo) popolato da "uomini medi". Nei film di Verdone non c'è l'italiano tipico, ma uno strano tipo di italiano. Nelle strepitose commedie d'esordio i protagonisti gravitano attorno alla "normalità", ambiscono ad essa, vengono inglobati e poi desolatamente espulsi dal "salotto buono", quasi guardati con disprezzo (il povero Pasquale Ametrano deve rifarsi le foto perché "è peggiorato" e il tenero Leo viene fregato sul più bello dalla sua amata Marisol). Da Borotalco in poi (una delle opere più amate dallo stesso Verdone) arrivano quelli che mancano di un soffio la loro piena realizzazione. Sergio Benvenuti deve diventare Manuel Fantoni prima di arrendersi all'evidenza di essere un ragazzo qualunque e Rolando Ferrazza, protagonista di Acqua e sapone, indossa il clergyman dell'integerrimo padre Michael Spinetti quando vede il suo mondo crollare.
Carlo e le donne
Cresciuto Verdone, crescono anche i problemi dei suoi protagonisti, diventati professionisti in crisi profonda; gente arrivata ad una tranquillità massima, purtroppo fragile e non duratura. E di mezzo c'è sempre una donna, creature che per ammissione dello stesso regista sono superiori all'uomo, più sagge e per questo capaci di spiazzare i maschi ad ogni mossa. Tranne alcuni casi specifici, ad agitare i sogni di Verdone non è certo la femme fatale irraggiungibile del vecchio cinema muto, ma la brillante ragazza della porta accanto, l'unica in grado di mostrare una via d'uscita da una realtà confusa e deprimente. Il protagonista è quasi sempre stretto in una morsa morale ed intellettuale che lo priva della forza di decidere della sua vita, costantemente messo ad un bivio "tra la vita e la morte", per citare un passo della confessione fiume di Piero Ruffolo detto "Il Patata", chiave di volta di Compagni di scuola. In questo caso il duello, fin troppo scontato, è tra una moglie sguaiata, figlia di cotanto padre (un ossimoro vivente, un donnaiolo che ritiene la famiglia sacra) e una giovane allieva del professor Patata (una Natasha Hovey che con il suo candore virginale ha già incrinato l'incerto mondo di Verdone in Acqua e sapone).
Ancore di una salvezza non raggiunta o raggiunta in parte sono anche la spumeggiante Nadia Vandelli di Borotalco (Eleonora Giorgi premiata con il David per la sua interpretazione), l'incasinatissima Alice e l'altrettanto incasinata Silvia Piergentili, due caratteri, visti in Stasera a casa di Alice e Io e mia sorella, che hanno fatto la fortuna di Ornella Muti, la Iris Blond efficacemente interpretata da Claudia Gerini in Sono pazzo di Iris Blond e la dolce Carlotta (Stefania Rocca) di L'amore è eterno finché dura. Dove però Carlo Verdone tocca uno degli apici della sua carriera è nel racconto del rapporto d'amicizia-amore con la Camilla di Maledetto il giorno che t'ho incontrato, riconosciuta come una delle più equilibrate opere dell'autore, grazie alla brillante presenza di Margherita Buy, una delle poche attrici in grado di reggere il confronto serrato con Verdone da pari a pari.
Carlo e la famiglia
Se il rapporto con le donne è costante fonte di guai, la famiglia non è certo il porto sicuro in cui tornare per ritrovare serenità. Anzi, il termine famiglia è fin troppo sintetico per delineare un mondo affollato da padri, figli, nonne, fratelli, sorelle, mogli, suoceri e cognati. E in una società che tende a "schiacciare" i figli, privandoli della loro unicità, che propone la mitizzazione dei padri, gli eroi verdoniani non sono certo l'eccezione. Non è strano, quindi, in Maledetto il giorno che t'ho incontrato, vedere i fantasmi dei propri genitori comparire in camera da letto per ammonire Bernardo Arbusti, il figlio che veste male, il quarantenne disperato, innamorato di Jimi Hendrix. Tanti sono i padri di Carlo Verdone sullo schermo, tutti rudi, invadenti e senza speranza. Il Mario Brega che finge di incontrare casualmente il figliol prodigo Ruggero in Un sacco bello, è la quint'essenza della volgarità, l'emblema di una tracotanza da cui bisognerebbe solo separarsi, senza possibilmente fare una fine peggiore, ad esempio parlando con santoni dotati di "spada di fuoco". Ma la ribellione verso certe figure non è proprio il forte del nostro regista.
Stadio Olimpico - Olimpico Stadio
Da oggi, quindi, secondo le leggi di un'età anagrafica (spesso menzognera) Carlo Verdone fa parte di diritto del novero degli autori "maturi" del nostro cinema (la generazione dei Gabriele Salvatores e dei Marco Tullio Giordana); eppure c'è sempre qualcosa di ostinatamente infantile nei suoi film, qualcosa che non ha a che fare con l'allegria ridanciana, piuttosto con il ricordo nostalgico di un'innocenza perduta per sempre. Ecco perché risulta complicato scegliere tra tante sequenze quella che più lo rappresenta. Agiamo d'istinto e con la fantasia ci presentiamo armi e bagagli nella sperduta periferia romana di Un sacco bello, dove un palo della morte diventa, ironicamente, il posto migliore per improvvisati appuntamenti. Qualche isolato più in là, in un palazzone che sembra scampato a terribili disastri, vive Enzo, un bulletto mitomane che sta organizzando la vacanza della vita a Cracovia. Cerca un compagno di viaggio per poter condividere l'agognata abbuffata di sesso con donnine compiacenti, sedotte da biro e calze. Sfoglia la rubrica scompaginata e dopo un paio di telefonate patetiche inanella una sequela di rifiuti, più o meno motivati. Su quei fogli, alla lettera "O", campeggia la scritta Olimpico Stadio - informazioni biglietti. Più avanti alla "S", intravediamo un altro numero che vive di vita propria: Stadio Olimpico - biglietti. E' lì l'(anti)eroe verdoniano: un uomo solo e spaccone, un millantatore che per paura degli spazi bianchi di una rubrica, monito di una vita vuota, sarebbe capace di catalogare due volte i nomi e i cognomi di tutti i suoi (quattro) amici. E' su questa materia umana, vista con indulgenza e un pizzico di cattiveria, che il regista capitolino da sempre fonda la sua poetica e il lungometraggio datato 1980 ne è uno straordinario biglietto da visita. Assieme all'originalità di una scrittura che ha pochi eguali nel mondo comico italiano, capace di fissarsi subito nella memoria del pubblico e per questo vincente. Tanto da rendere amabile (accettabile) la pervicace vocazione alla sconfitta dei suoi tanti alter ego. Auguri.