Non ci posso fare niente: non so resistere, è più forte di me! Lo so che un giorno dovrò pagare per quello che faccio, ma senza questo non potrei più vivere.
Quando, il 5 settembre 1967, viene proiettato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, Bella di giorno è già avvolto da un'aura di controversia e di scandalo: pochi mesi prima era stato addirittura rifiutato dal Festival di Cannes, i cui selezionatori avevano considerato il soggetto eccessivamente scabroso, ma in compenso aveva suscitato un enorme interesse presso il pubblico francese, che era accorso in massa nelle sale facendo registrare alla pellicola più di due milioni di spettatori. Passando dalla Francia alla cattolicissima Italia, Luis Buñuel avrebbe completato la propria rivincita: l'8 settembre Bella di giorno viene selezionato dalla giuria di Venezia, presieduta da Alberto Moravia, come destinatario del Leone d'Oro per il miglior film, per poi approdare nei cinema italiani una settimana più tardi (non prima di essere incappato nelle forbici inesorabili della censura).
Provocatorio, oltraggioso, contestatissimo: se già in passato Luis Buñuel non era stato risparmiato da accuse di blasfemia per titoli quali Nazarín e Viridiana, anche Bella di giorno, ritratto della "doppia vita" della giovane Séverine Serizy, non può non suscitare una certa irritazione e attirarsi contro la sua prevedibile dose di strali. Ma come prova anche l'inaspettato successo internazionale del film, i tempi ormai stanno cambiando: gli anni Sessanta sono il periodo dell'ascesa del femminismo, della rivoluzione sessuale e della messa in discussione del modello borghese, e in tal senso il regista spagnolo e il suo co-sceneggiatore, Jean-Claude Carrière, riescono a intercettare appieno lo Zeitgeist e la nuova visione della società e della donna. Bella di giorno, tuttavia, non è un'opera 'militante' o a tesi: lo sguardo di Buñuel punta piuttosto ad addentrarsi negli angoli oscuri e inesplorati della realtà, senza rinunciare ad utilizzare, all'occorrenza, la lente del surrealismo.
Séverine: donna-angelo e prostituta
Quest'ultimo aspetto, sebbene meno preponderante rispetto ad altri classici del regista, si riaffaccia però tramite il substrato onirico di Séverine, interpretata da Catherine Deneuve: nello specifico, le fantasie erotiche in cui la ragazza dà sfogo alle proprie pulsioni masochistiche. La scena iniziale ne è già un perfetto esempio: se il film si apre con l'idillio romantico fra la protagonista e suo marito Pierre (Jean Sorel), fianco a fianco su una carrozza mentre attraversano un bosco, pochi istanti più tardi la situazione muta radicalmente, con Séverine legata a un albero per essere frustata sulla schiena. È il primo, impietoso sberleffo di Luis Buñuel alla concezione della donna come "angelo del focolare": Séverine, a cui la ventitreenne Deneuve conferisce un'algida eleganza e una bellezza candida e verginale, sperimenta una scissione insanabile fra il suo ruolo sociale, quello di impeccabile moglie casalinga, e il desiderio di un'oggettivazione sessuale che la veda succube e inerme.
Eccitazione e vergogna, umiliazione e alterigia: sono i poli opposti fra cui ondeggia la figura di Séverine, divisa fra l'immagine di donna angelicata (e pertanto incapace di esprimere la propria sessualità con Pierre) e la nuova identità come Bella di giorno, il suo alter ego che di pomeriggio si prostituisce nella casa d'appuntamenti di Madame Anaïs (Geneviève Page). Catherine Deneuve, giunta alla celebrità tre anni prima dando volto alla purezza sentimentale di Geneviève Emery nel musical di Jacques Demy Les Parapluies de Cherbourg, qui al contrario incarna un personaggio immerso in un'ambiguità impenetrabile. Ma Buñuel non si pone mai in una posizione giudicante verso Séverine e la sua duplicità, che anzi le permetterà di conoscere un'altra dimensione di se stessa; il sarcasmo del regista, semmai, è indirizzato contro il perbenismo ipocrita - e di matrice tipicamente borghese - di chi, come l'Henri Husson di Michel Piccoli, vorrebbe ergersi a giudice della ragazza e delle sue scelte.
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Luis Buñuel e gli oscuri oggetti del desiderio
Le tinte soffuse di Bella di giorno sono increspate infatti, come spesso accade nel cinema di Buñuel, da occasionali pennellate più cupe e angosciose, che talvolta durano appena una manciata di secondi: è il caso dei due fugaci flashback di Séverine, uno dei quali allude a un abuso sessuale subito da bambina, mentre l'altro mostra il suo rifiuto di ricevere la comunione; o il sogno in cui la protagonista, velata di nero, si trasforma in un feticcio necrofilo. In un film che, in un 1967 tutt'altro che libero dai tabù, offre una rappresentazione insolitamente esplicita dell'eros, il sesso - vissuto o solo vagheggiato - può assumere dunque sfumature minacciose e brutali: una 'bestialità' che trova la sua concretizzazione nel Marcel di Pierre Clémenti, l'attraente criminale dai denti artificiali che scatena la passione di Bella di giorno ma, al tempo stesso, rischia di distruggere l'equilibrio familiare di Séverine, trasportando di colpo la storia verso i territori del noir.
In un'epoca che aveva appena cominciato a riconoscere l'evoluzione della società e a metabolizzare i fermenti della nascente controcultura, Bella di giorno ha un effetto dirompente che sorprende ancora di più se si considera la sua fonte letteraria: un romanzo omonimo datato addirittura 1928, a firma dello scrittore francese Joseph Kessel. Accolta da un entusiasmo senza precedenti nella produzione di Luis Buñuel, la pellicola apre così nel miglior modo possibile l'ultimo, folgorante decennio della carriera del regista, che si chiuderà nel 1977 con Quell'oscuro oggetto del desiderio, sempre in collaborazione con Jean-Claude Carrière: guarda caso, un altro indimenticabile viaggio negli abissi di un erotismo declinato come un gioco di potere tra carnefici e vittime.