Come sottolineeremo in questa recensione di Baby Reindeer, nella serie Netflix ideata, scritta e interpretata da Richard Gadd la mente diventa sostanza malleabile, un blocco di marmo modellato da un destino nefasto. In mezzo, mancanze, sorrisi, abusi e tanta paura: quella che ti blocca, ti annienta, ti perseguita fino a diventare parte di te. E sarà proprio nel momento in cui ogni sintomo di questo timore viene debellato, che ti accorgi di quanto tu ne sia diventato dipendente. Una serie che fa male e fa sorridere, intrattiene e annienta, Baby Reindeer. Una galleria emozionale da scrutare, mentre le lacrime scendono, mentre tutto diventa parte di quegli incubi da cui non ti vuoi più svegliare.
Baby Reindeer: la trama
Adattamento dell'omonima e acclamata opera teatrale di Richard Gadd, Baby Reindeer segue l'inesorabile discesa agli inferi del giovane barista Donny con il sogno di diventare comico. È una giornata come tante altre per il ragazzo, quando a fare la sua comparsa nel pub londinese in cui lavora è Martha (Jessica Dunning), una cliente la cui vulnerabilità è evidente. Martha si presenta come avvocato di successo, ma senza un soldo; impietosito, o semplicemente generoso, Donny decide di offrirle una tazza di te, ma ecco che da una tale buona azione si scatenerà un'ossessione soffocante che minaccia di rovinare entrambe le loro vite e costringe Donny ad affrontare un suo trauma profondamente sepolto e ad allontanare le persone a cui si stava legando, come la bella Teri.
Tratto da una storia maledettamente vera
Baby Reindeer è tratto da una storia vera. Una storia di abusi, violenze, stalking, di elementi destabilizzanti vissuti su una pelle che si ingrigisce, si consuma, episodio dopo episodio. È la pelle di un corpo che rivive ancora e per sempre sugli strascichi di un passato pronto a esorcizzare con fare catartico le ombre che lo hanno investito. È il corpo di Richard Gadd, attore e sceneggiatore scozzese che nello spazio di uno spettacolo teatrale, adesso trasformatosi in opera seriale, non ha paura di svestirsi, di mostrarsi nella sua fragilità e introspezione. Quella di Baby Reindeer è una storia che non ha paura di sconfinare i pregiudizi e abbattere i cliché, mostrando che anche gli uomini piangono, e le donne perseguitano. Una discesa nel baratro di dipendenze (anche) affettive, di ossessioni, di denunce, di paure, di molestie, capace di non scendere mai nel pietismo, forte di un sarcasmo caustico, di un ritmo incalzante, e di una colonna sonora che ti prende per mano, ti spinge a terra, per poi riprenderti improvvisamente e afferrarti poco prima di colpire il freddo dell'asfalto.
L'onestà del dolore
Che Baby Reindeer sia è una storia vera lo percepisci dall'onestà del racconto, nell'opposizione alla possibile censura, nell'ancoraggio visivo su primi piani magnetici, di sguardi che cercano una complicità, un appoggio, una comprensione che non riescono a trovare - o non vogliono trovare - altrove. È una montagna russa di emozioni la serie di Netflix, un sali e scendi continuo che corre veloce su binari solidi, costituiti da un montaggio visivo e sonoro capace di dare ritmo alla vicenda, e restituire ogni cambiamento umorale, confessione, o insicurezza, che scorre nelle vene di sette, imperdibili episodi. Registicamente vicino a Edgar Wright, e nella sostanza narrativa all'opera di Gaspar Noè e Darren Aronofsky, Baby Reindeer non ha paura di giocare con i propri spettatori, costruire un corpo dinamico, quasi psichedelico, che raccoglie al proprio interno una doppia anima frastagliata, di chi si appoggia alle ossessioni altrui per superare le proprie.
Doppie esistenze, doppie sofferenze
È un gioco di doppi, quello di Baby Reindeer: doppie fragilità, doppio masochismo, doppie esistenze deflagrate dai traumi del passato, e poi ricucite malamente, lasciando che le cicatrici interne brucino. Lo stalking di Martha sarà per Donny un antiestetico alla propria incapacità di affrontare la mole dei propri sentimenti; è un antidoto allo slancio autolesionistico di un uomo che rifiuta il contatto altrui, pur di credere di stare bene. Ma fino ai primi tre episodi tutto questo lo spettatore non lo sa; ed è qui che si ritrova la delicatezza di un'opera come Baby Reindeer: il pubblico sorride per le disavventure di un uomo qualunque; assiste alle conseguenze paradossali che un atto di gentilezza può comportare; si immedesima in un ragazzo forse preda di una sindrome del crocerossino a tratti quasi esagerata. Un umorismo evidenziato dai colori accesi, da panoramiche veloci, da riprese dinamiche, e inquadrature raccordate con fare energico, improvviso. Ma dietro a tale odissea fatta di ossessioni e fughe, comparse improvvise e insicurezze, si aprirà uno scenario interno terremotato, un animo distrutto da scosse sismiche per un incontro degenerativo, che condurrà a barattare la propria serenità mentale e fisica, con l'aspirazione alla realizzazione dei propri sogni.
Poi? Stacco di montaggio, e cambio improvviso di tempo, spazio, ambienti. Un tuffo carpiato nelle acque torbide e tumultuose di Donny, quello compiuto a occhi chiusi dallo spettatore di Baby Reindeer. Un gesto impulsivo, naturale, facilitato da un costrutto visivo dove la fotografia cangiante (e sempre in linea con le emozioni del momento), il montaggio serrato, una regia che insegue, precede, i propri personaggi, duplicandone o anticipandone i movimenti, prende il pubblico per le spalle lanciandolo nel vuoto. Un vuoto fatto di sette episodi durante i quali si ride, ci si commuove, si riflette, ci si sente maledettamente vivi, nonostante gli incubi che si avviluppano a noi, nonostante le paure, nonostante il respiro che manca e una tazza di te offerta dalla casa.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Baby Reindeer, sottolineando come la serie disponibile su Netflix affondi a piene mani sulla forza di un trauma personale come quello vissuto dal suo ideatore e protagonista (Richard Gadd) per elevarsi a processo catartico lungo sette, imperdibili, episodi. La performance degli attori, la dinamicità del montaggio, i movimenti di macchina, la forza emotiva della colonna sonora: tutto è chiamato a restituire la forza tangibile di un viaggio nella selva oscura del proprio protagonista, senza forzature, ma tanta, tantissima, sensibilità.
Perché ci piace
- La performance degli attori.
- L'uso della colonna sonora.
- Il dinamismo della cinepresa e il ritmo dato dal montaggio.
- La durata degli episodi, capaci di condensare in circa 40 minuti la portata di un trauma.
- La sensazione destabilizzante che ti avvolge a fine visione.
Cosa non va
- Il dover dire addio a questi personaggi.
- Accettare che sia una storia vera, il che non è un difetto, ma fa comunque male.