Sono passati tre anni dal suo ultimo cimento cinematografico, Millennium - Uomini che odiano le donne, remake dell'omonimo film svedese e primo capitolo di una saga lasciata in sospeso (ma forse non in maniera definitiva). Da allora David Fincher, 52 anni, nato a Denver, si è messo al servizio della televisione, collaborando come regista e produttore esecutivo a una delle serie più acclamate del panorama contemporaneo, House of Cards, per la quale nel 2013 si è aggiudicato l'Emmy Award per la regia dell'episodio pilota.
In questi giorni, Fincher è tornato al centro dell'attenzione grazie al suo nuovo thriller, L'amore bugiardo - Gone Girl, trasposizione del best-seller di Gillian Flynn, che sarà proiettato nella serata d'apertura del New York Film Festival e debutterà nelle sale americane il 3 ottobre (nel nostro paese, invece, per vederlo dovremo aspettare il 18 dicembre, a causa della bizzarra scelta del distributore italiano, che ne ha posticipato l'uscita di due mesi e mezzo). Il film ha per protagonista Ben Affleck nel ruolo di Nick Dunne, un uomo la cui vita è sconvolta all'improvviso dalla misteriosa sparizione di sua moglie Amy (Rosamund Pike), nonché dalla rete di indagini e sospetti nella quale si ritrova coinvolto in prima persona.
Inutile dire che le aspettative nei confronti della pellicola sono altissime: Fincher, del resto, è considerato uno dei maestri del genere thriller, in particolare grazie a Seven, il cult movie che nel 1995 lo ha trasformato in uno dei registi più promettenti della sua generazione. Una promessa mantenuta in pieno: da allora, Fincher ha realizzato film elettrizzanti e di grande impatto come Fight club e Zodiac, ha diretto l'ambizioso kolossal romantico Il curioso caso di Benjamin Button, ha entusiasmato critica e pubblico con il suo capolavoro più acuto e tagliente, The Social Network, formidabile descrizione della nascita del fenomeno Facebook, e ha collezionato un Golden Globe, un BAFTA Award e due nomination all'Oscar. Venerdì abbiamo incontrato il grande regista americano, a Roma per presentare alla stampa Gone Girl, e abbiamo partecipato ad una conversazione ad ampio raggio sulla sua carriera, sui suoi metodi di lavoro e sul suo rapporto con gli attori.
Lezioni di regia
Signor Fincher, a livello stilistico quali sono le caratteristiche che ha voluto dare al suo nuovo film, Gone Girl? Era intenzionato a conferirgli un look particolare?
Non ho cercato di dargli un aspetto preciso, mi sono preoccupato piuttosto dell'uso della camera digitale, che richiede un'attenzione diversa rispetto alla pellicola, soprattutto per quanto riguarda i flash e le luci molto forti. In linea generale, volevamo che a livello stilistico Gone Girl recuperasse il senso di realismo della TV; ci sono comunque scene molto cinematografiche e con una fotografia cupa, ma l'impostazione generale è stata quella di un prodotto televisivo. La storia aveva bisogno di un look che avesse un'aria familiare e quotidiana, da cronaca televisiva appunto; il protagonista, Nick Dunne, vuole presentare la sua realtà attraverso il proprio comportamento, per quanto venga continuamente frainteso, e questo atteggiamento si rispecchia nell'aspetto visivo del film.
Per quali motivi preferisce l'uso del digitale?
Non mi piace dover fermare le riprese per caricare la pellicola, anche perché queste lunghe pause diventano una grande fatica pure per gli attori. Se sprechi tanti soldi per utilizzare la pellicola poi, da regista, non te la senti di correre troppi rischi; per questo motivo preferisco di gran lunga il digitale. Per Gone Girl abbiamo girato circa cinquecentocinquanta ore di materiale, per poi ridurre il montaggio finale a due ore e mezza di durata. Non volevamo che il digitale avesse l'aspetto di un film su pellicola, abbiamo preferito mantenere un look più realistico possibile. Le riprese sono durate centocinque giorni, con due macchine da presa... si tratta comunque di costi molto alti! In linea generale, il digitale ti offre maggiori possibilità rispetto alla pellicola. Per quanto riguarda il resto, il mio stile dipende anche dal tipo di film che sto realizzando: Millennium - Uomini che odiano le donne, essendo stato girato in Svezia, aveva per forza di cose una luce diversa rispetto a The Social Network.
Il lavoro con gli attori
Lei ha l'abitudine di ripetere le stesse sequenze moltissime volte: da cosa dipende questa scelta e come influisce sul lavoro degli attori?
Penso che gli attori vogliano sempre recitare e sperimentare, e che non abbiano piacere a starsene fermi ad aspettare tra un ciak e l'altro. Per me si tratta di "scolpire" il comportamento degli attori da una ripresa all'altra, spiegando loro fin dall'inizio qual è il mio obiettivo e cosa mi aspetto. Sul set noi operiamo una finzione, e gli attori vogliono che il loro lavoro possa offrire il massimo contributo possibile al film in termini di credibilità. Non si tratta di perfezionismo: il perfezionismo può essere controproducente, e nell'umanità non c'è spazio per la perfezione assoluta. Da attore, tu la sera prima potresti essere sicurissimo su come interpretare un personaggio, ma prima di mettere piede sul set non puoi comunque tenere conto di ciò che accadrà attorno a te durante le riprese, alla presenza di tutti gli altri membri del cast e della troupe; non è detto quindi che la tua impostazione di partenza risulti funzionale al film. In qualità di regista, io voglio portare l'attore a un punto in cui non ricorda più neppure il suo nome: allora possiamo davvero iniziare a lavorare. Il punto a cui mi riferisco è quando l'attore sa esattamente dove si trovano le sedie nella stanza, o riesce ad afferrare gli occhiali e infilarseli senza neanche guardarli, perché ormai conosce a menadito lo scenario delle riprese. Le parole, almeno nei miei film, non rappresentano la verità; la verità si ottiene soprattutto dai gesti, e non bastano solo due o tre riprese per raggiungere questo risultato: si tratta di calibrare il lavoro in maniera estremamente specifica.
Come si pone nei confronti degli attori? Fornisce loro molte indicazioni o preferisce lasciare spazio alla spontaneità?
Ho un profondo rispetto per chi lavora davanti alla cinepresa, perché si trova in una condizione di grande vulnerabilità. È un lavoro molto difficile, per una comparsa perfino fare il percorso da una porta di casa fino alla macchina in maniera spontanea può risultare complicato. Il rapporto con l'attore è un po' come il rapporto con un figlio: devi "educarlo" fino a renderlo indipendente e sicuro di sé. Non voglio attori che dipendano interamente dalla mia approvazione: voglio che siano tutti pronti a svolgere il loro compito e che siano rispettosi verso gli altri membri della troupe, perché anche loro stanno dedicando tempo ed impegno al film. Si tratta di lavoro, e la cosa più rispettosa che puoi fare nei confronti di chi lavora con te è metterli nella condizione di realizzare il film nel miglior modo possibile.
Nel corso delle riprese, accetta suggerimenti da parte degli attori o apporta modifiche alla sceneggiatura?
Inizio sempre la giornata provando insieme agli attori. Ho già un'idea di come organizzare le scene, ma accetto anche consigli da parte dei membri del cast; se quello che propongono mi sembra sensato, allora ne tengo conto e provo a testarlo durante le riprese, magari arrivando ad apportare modifiche alla sceneggiatura. Di solito uso due cineprese, e mi piace poter riprendere contemporaneamente la stessa scena da due prospettive, anche partendo da angolature particolari, senza bisogno di dover interrompere un dialogo o un'azione.
Dai video musicali all'esordio con Alien
Il suo primo film è stato Alien 3, un progetto molto controverso: è stato difficile esordire al cinema con una saga così importante?
Ho iniziato la carriera di regista girando video musicali, e grazie al successo di questi video sono stato chiamato per dirigere degli spot TV. Quando mi hanno ingaggiato per il mio primo film, Alien 3, avevo circa 28 anni, e dovevo gestire per la prima volta un grande progetto con un budget di 65 milioni di dollari. Il fatto di passare al cinema, tuttavia, comporta anche l'approvazione di altre persone, che devono darti la loro autorizzazione per ogni dettaglio. Al mio secondo film, allora, mi sono detto: "Fanculo, non mi farò dire da altri cosa fare, voglio svolgere questo lavoro alla mia maniera!". Questo comporta comunque delle grandi responsabilità nei confronti del film: sia verso i finanziatori, sia verso gli attori.
Lei è uno specialista del genere thriller, e il suo film Panic Room è stato accostato ai classici di Alfred Hitchcock: concorda con questo paragone?
Panic Room in effetti è l'unico tra i miei film che si possa definire hitchcockiano, dal momento che il pubblico ne sa di più rispetto agli stessi protagonisti della storia: pertanto si crea quella sorta di suspense che rientrava nella poetica di Hitchcock. Di solito però sono portato a realizzare film in cui, al contrario, lo spettatore non sa esattamente cosa stia accadendo o quali intenzioni abbiano i personaggi; Panic Room è quindi l'unico mio film in cui il pubblico è un passo avanti rispetto ai protagonisti, in linea con la filosofia di Hitchcock in termini di suspense.
Uno dei progetti più coraggiosi della sua carriera è stato Zodiac: ha avuto difficoltà a realizzare un thriller dal finale aperto?
Nella realtà il caso Zodiac non è mai stato risolto; io mi sono attenuto ai fatti, limitandomi a rendere la storia più cinematografica. Zodiac stato un film molto importante per me: ho voluto raccontare le esistenze degli individui che sono stati ossessionati da quella vicenda. I protagonisti volevano arrivare ad un epilogo di quell'indagine, ma la storia, così come la vita reale, non ha avuto un tipico "epilogo da film".
The Social Network, la collaborazione con Reznor e il rapporto fra cinema e TV
Cosa può dirci a proposito del suo sodalizio con Trent Reznor, che ha composto anche le musiche di Gone Girl?
Per The Social Network, dopo aver terminato le riprese del film mi sono rivolto a Trent Reznor per la colonna sonora; avevo anche già in mente cinque o sei fra le sue canzoni che mi sembravano molto adatte. Ma Reznor inizialmente rifiutò, perché era molto impegnato; circa sei mesi più tardi, però, ha cambiato idea e ha deciso di occuparsi delle musiche. Poco tempo dopo ho iniziato a ricevere tramite mp3 una serie di suoni bizzarri che lui aveva registrato, e così ci siamo impegnati a collocarli all'interno del film. The Social Network è la storia del coming of age di un gruppo di nerd, e pertanto volevo che le musiche fossero connotate da un sound con i peggiori sintetizzatori possibili. Per Gone Girl ho richiesto invece che le musiche creassero la stessa atmosfera rilassante che si può sperimentare in un centro benessere: una melodia atonale in grado di generare loop costante.
Di recente ha collaborato alla serie TV House of Cards: qual è il suo punto di vista sul rapporto fra cinema e televisione?
Sono due forme d'arte completamente diverse, come la musica leggera e l'opera lirica: una è pensata per essere ascoltata a ripetizione dall'autoradio mentre guidi la macchina, l'altra invece per farti stare seduto in un teatro, con la massima concentrazione, per tre ore di fila. Da un punto di vista registico credo che il lavoro per cinema e TV sia fondamentalmente lo stesso, a partire da un casting efficace e dalla messa a punto di una valida sceneggiatura. A mio avviso, la maggiore differenza fra il cinema e la televisione risiede nel fatto che il cinema non ha tempo per approfondire molto i personaggi, mentre la televisione non ha i soldi per far esplodere gli aerei! In una serie TV hai a disposizione tantissimo tempo, quindi puoi permetterti di esplorare a fondo i personaggi, illustrandone le convinzioni e le contraddizioni. Al cinema, invece, hai a disposizione cinquanta o sessanta milioni di dollari, ma non hai tempo per sviluppare tutte le fasi dell'evoluzione di un personaggio, il quale spesso viene sottoposto a dei repentini cambiamenti. A prescindere da questa differenza, però, gli strumenti narrativi di cinema e TV sono gli stessi.