Recensione Come Dio comanda (2008)

Un'opera visivamente impeccabile eppure grezza, che tenta di superare gli evidenti limiti di sceneggiatura con le sfumature e la forza che trasuda un ben orchestrato mix di corpi, suoni, musiche ed emozioni.

Amore feroce

Qual è la distanza che separa la rabbia dalle lacrime liberatorie, la violenza dalla comprensione e dall'amore? In Come Dio comanda, il film che riunisce la fortunata coppia Salvatores-Ammaniti cinque anni dopo Io non ho paura, sono chiamati a scoprirlo un padre e un figlio, due esseri umani uniti da un amore fisico, feroce, maschio, e per questo gravido di errori. Dopo aver fondato il proprio legame su insegnamenti sbagliati che rincorrono atroci ideali, per entrarsi dentro i due hanno ora bisogno della separazione, di un dubbio e della paura più grande, per sollevarsi dalle ansie del quotidiano e riunirsi in una nuova dimensione. Messe da parte le ambizioni di fotografare il marcio della nostra società e le noiose isterie dei trentenni insoddisfatti, il cinema italiano riesce a risplendere tornando a incollarsi agli uomini, costringendoli a confrontarsi con sé stessi e a rincorrere l'altro. Le solitudini vanno cercando sollievo abbracciandosi tra loro, agli emarginati la paura fa più di uno sgambetto, ma calandosi nelle viscere, all'essenza dell'uomo le possibilità di riscatto si rivelano infinite.

Cupo, cupissimo Salvatores che però non molla la speranza, la fa sbocciare dal fango che sa d'incredibile. I personaggi del film si muovono nei territori deserti di un Nord-Est senza nome e dai differenti volti. C'è quello post-industriale, dominato dalle fabbriche che sbuffano verso l'altro i propri fumi inquinanti, e quello dove la natura selvaggia può ancora ingoiare l'uomo. L'aridità del mondo esterno ha prosciugato i protagonisti, li ha incattiviti per la paura e la rabbia, trasformandoli in animali incapaci di concedersi il giusto amore, che delle proprie disgrazie incolpano sempre gli altri, chi viene a rubare ciò che è loro. La libertà per Rino è una pistola, è la violenza, picchiare più forte chi ti aggredisce. Il suo delirio nazista tatuato perfino sul corpo si impone come lezione di vita al figlio, costretto a subire, ma nello stesso tempo ansioso di farsi accettare dal padre e quindi disposto ad assecondarlo. Appena la neve lascia però il passo alla tempesta, alla pioggia battente, che rende fango il terreno e ci fa sprofondare dentro i corpi in gioco, allora i rapporti sono destinati inevitabilmente a mutare, spalancando nuovi orizzonti. Nonostante l'equivoco in cui cade il figlio, inorridito da un padre già imperfetto che è però l'unica persona che ha al mondo, c'è spazio per l'offerta di un amore incondizionato che copra l'oscenità del suo presunto sbaglio. La ricompensa è un soffio di purezza, un pianto di vergogna che va a nutrire un legame tutto nuovo.
Il regista napoletano si carica su una spalla la camera e insegue i protagonisti, senza ridurli in uno spazio claustrofobico. Le loro zone d'ombra inquinano gli interni e vengono sgretolate in mezzo alla natura, in immagini scure, liquide, sporche. Ammaniti spezza in tre parti la storia: nella prima ci presenta i personaggi e le relazioni che li legano, in quella centrale li abbandona nel bosco degli orrori, smascherando la loro natura selvaggia, nell'ultima prende infine coscienza dei mutati equilibri e del silenzio di Dio di fronte alle tragedie. Lo scrittore tende a levare, ad asciugare al massimo il romanzo di partenza intenzionato a far parlare soprattutto corpi e sguardi, ma così facendo perde il controllo sulla storia che vive troppo spesso di superficialità quando si allontana dal cuore, dai due protagonisti. L'assistente sociale del film è una figura risibile nella sua vacuità, mentre lo scemo del villaggio che commette il crimine è un personaggio francamente superato e fastidioso e questo nuovo tassello nella galleria di ruoli borderline interpretati da Elio Germano soffre ormai di quel già visto che pesa sull'interpretazione e sulla credibilità del narrato.
Fa malissimo invece vedere la sensibilità di un attore come Filippo Timi doversi piegare a un personaggio che sguazza nel vomito della società, ma la sua bravura è indiscutibile, la sua prova sofferta, e basta la potente immagine finale a restituirci tutta la sua purezza. Alvaro Caleca è poi un figlio convincente nella sua recitazione acerba, tutt'altro che perfetta e per questo sincera. Per una volta l'abbondanza della musica non serve a coprire i silenzi, ma a rafforzarli, a dar voce alle esplosioni interne ai protagonisti. Sono le trame post-rock che ricamano con eleganza i Mokadelic (gli ex Moka, finalmente alla ribalta) e che contrastano con il pop di Robbie Williams che fa da azzeccato sottofondo al più orribile dei crimini e con la voce angelica di Antony and the Johnson che accompagna come una ninna nanna i primi piani di grande impatto che chiudono il film. Quella di Salvatores è un'opera visivamente impeccabile eppure grezza, che tenta di superare gli evidenti limiti di sceneggiatura con le sfumature e la forza che trasuda un ben orchestrato mix di corpi, suoni, musiche ed emozioni. Di grande efficacia è poi la presa di coscienza dell'assenza di Dio. Seppure ancora imperfetta, c'è un'idea forte dietro il cinema di Gabriele Salvatores.