American Gods, Come to Jesus: prega per la pace, preparati per la guerra

Il lungo e faticoso viaggio di Mr. Wednesday e Shadow Moon giunge al capolinea. Anzi, ad un crocevia dove finalmente l'opposizione tra nuovi e antichi dei si manifesta nelle intenzioni e nei progetti bellici. Il tutto raccontato da un finale di stagione potente, soddisfacente e dal grande potere immaginifico.

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Parte tutto da un ragno. Nasce tutto dal laborioso aracnide perché è dal suo modo di tessere tele che American Gods ha imparato a raccontare la sua storia. Paziente, avvolgente e vorticosa, la serie ideata da Bryan Fuller e Michael Green non ha mai avuto fretta nel costruire poco alla volta la sua trama densissima di mito, dentro cui convivono la passione per antichi racconti e il desiderio di rappresentare l'uomo contemporaneo, frastornato, disorientato e soprattutto conteso tra vecchie e nuove divinità. Da una parte abbiamo conosciuto testarde figure ataviche, dei a capo di culture lontane (da quelle egizie a quelle norrene, passando per quelle mussulmane e irlandesi), dall'altra ecco nuovi ambasciatori di nuovi miti (i media e la tecnologia), ammalianti e onnipresenti come i loro tanti amati contenuti virali. In mezzo a loro, schiacciato da promesse, raggiri e ricatti, abbiamo imparato a vedere il mondo come Shadow Moon, ex galeotto diventato vedovo di Laura, donna e moglie complicata, incapace di credere in qualcosa e in qualcuno (se stessa in primis). Tenendo la mano a questa coppia allontanata da tradimenti e lutti, abbiamo camminato per le tortuose vie degli Stati Uniti d'America affidandoci più o meno ciecamente alla guida del cripitco Mr. Wednesday, consapevoli soltanto di una cosa: enormi forze erano in gioco, in ballo, pronte a scontrarsi. E abbiamo capito che gli dei hanno bisogno degli uomini per esistere. Siamo noi a confermarne il senso, noi a definirne l'utilità, noi a creare un rapporto di reciproca e inestricabile subordinazione.

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Come all'interno di un meraviglioso e complesso gioco di metanarrazione, American Gods ci ha fatto accomodare sul divano, ha puntato il dito verso lo schermo e ci ha chiesto neanche troppo gentilmente: "A cosa sei disposto a credere?". Perché la serie tratta dal romanzo di Neil Gaiman ci ha parlato del divino con una strafottenza divina, senza mezze misure e carezze rassicuranti, sbattendoci in faccia una storia disomogenea, sopra le righe, straniante, ostica, ma incredibilmente significativa e ispirata, in grado di interrogarci sul nostro concetto di fede, religiosa o laica che sia. E oggi, giunti alla fine della prima stagione, sappiamo che la meta di questo lungo viaggio è ancora lontana. Ci siamo soltanto fermati ad una stazione di servizio per fare il pieno di benzina e di acqua santa.

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Antiche regine pronte all'upgrade

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Parlavamo di ragni, ovvero i solerti "aiutanti" di Anansi, sarto in procinto di creare due degni abiti per Mr. Wednesday e Shadow alla vigilia di un evento decisivo. Prima di vestirli, però, il grande affabulatore racconta loro una storia assai significativa. È la storia di Bilquis, antica e adorata regina di Saba, la cui figura è stata tramandata sia dal racconto biblico che da quello coranico. Un personaggio molto affascinante, apparso poche volte sin dal primo episodio, e per questo circondato da un alone di mistero. Come to Jesus si apre facendo luce sulla sua lunga storia, su come una regina carnale e fortemente legata alla dimensione sessuale fosse capace di imporre il suo potere su uomini letteralmente prosciugati e annientati dal suo fascino attrattivo. La scultorea Bilquis diventa così il simbolo dello strapotere femminile, un potere che parla di creazione di rinascita.

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Un potere a cui gli uomini si sono poi ribellati con lo strumento che meglio conoscono: la violenza. Bilquis viene così detronizzata, dimenticata, umiliata, abbandonata, ridotta in miseria. Senza corona e malaticcia, la ritroviamo ai giorni nostri, nomade e disperata, almeno sino a quando il saccente Technical Boy appare dinanzi a lei. Uno dei rappresentanti dei nuovi dei la tenta con le mirabolanti possibilità della tecnologia contemporanea, quella che attraverso profili social, like e stelle di gradimento mettono in atto una nuova forma di adorazione, dove ognuno ha il suo altare e i propri fedeli seguaci. Una figura antica si aggiorna, il mito 2.0 si compie. Ma cosa ne pensano gli antichi dei? Dove sono diretti Mr. Wednesday e Shadow così ben vestiti?

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Darwinismo religioso

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Il lungo viaggio dei nostri non conosce un capolinea, ma in questo soddisfacente ma per niente saziante finale di stagione trova un crocevia, un luogo dove finalmente tutti i personaggi si incontrano e scontrato per un inevitabile resa dei conti. Mr. Wednesday e Shadow arrivano così nella lussureggiante e strabordante dimora di Easter, signora della Pasqua e della Resurrezione, e per questo tanto ambita anche dalla rediviva Laura accompagnata da un Mad Sweeney che le rivela di essere complice della sua morte. Nient'altro che un sacrifico preteso da Mr. Wednesday per poter manipolare un marito senza più niente in mano come Shadow. L'approdo in questa specie di Eden pasquale stracolmo di cibo, abiti vistosi e dolci coniglietti è forse uno dei momenti più significativi della serie, un espediente attraverso cui American Gods esprime tutto il suo spirito critico nei confronti del nostro modo di credere e soprattutto celebrare il nostro credo. La villa di Easter, un concentrato di uova, merletti, colombe e simboli pasquali, rappresenta alla perfezione la tracotanza e il bombardamento delle nostre festività cristiane, dove il festeggiamento supera il festeggiato, il rito soffoca il senso di se stesso e si trasforma in ricorrenza abitudinaria.

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Così, mentre il fedele si aggira assuefatto, satollo e distratto, il "protagonista" della Pasqua, ovvero il risorto Gesù Cristo, si moltiplica in tanti volti, in tanti corpi, si disperde diventando soltanto uno dei tanti invitati alla sua stessa festa. Questo Media lo sa bene in quanto complice di una sovraesposizione materialista perfettamente in linea con i piani dei nuovi dei.

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Quello che Media non sa ancora è che il piano opposto di Odino (ovvero il vero nome del "signor mercoledì") sta per compiersi davanti ai suoi occhi. Questo finale di stagione di American Gods infatti ci lascia sull'orlo di un'atavica guerra dopo averci mostrato solo l'inizio della battaglia, ma (e non è cosa da poco) conosciamo bene le motivazioni dei due schieramenti. Gli antichi dei intendono ripristinare un vecchio rapporto di dipendenza tra uomo e dio, un patto tacito quanto necessario: dare qualcosa per ricevere qualcosa. E per far sì che l'uomo chieda qualcosa bisogna privarlo di tutto il benessere contemporaneo. Svuotare il suo frigo e obbligarlo di nuovo a pregare in un buon raccolto. Secondo l'antico contratto sostenuto da Odino gli uomini vanno costretti alla dipendenza attraverso la sottrazione. Dall'altra parte, invece, abbiamo nuovi dei prodighi di doni, eterne promesse di possibilità mirabolanti, di schermi, superpoteri a portata di mano e in touch screen. Gli antichi vogliono privare per rendere devoti, i nuovi dare per rendere riconoscenti. In mezzo, come sempre c'è lui, Shadow che adesso crede in tutto e a tutto. E ci crediamo anche noi. Crediamo in questa serie coraggiosa e un po' folle, schietta e sincera nella sua complessità tematica e nella sua esasperazione scenica, sempre manifestate senza trucchi e senza remore. Se ci fosse un undicesimo comandamento chiamato "non eccedere", state tranquilli, American Gods ci sputerebbe sopra come il migliore dei blasfemi.

Movieplayer.it

4.0/5