Akira (la pellicola) firmata da Katsuhiro Otomo (lo stesso autore del manga) ha costituito un momento di svolta epocale da diversi punti di vista: culturale, commerciale, tecnologico e cinematografico. Un film che ha segnato un prima e un dopo, che ha creato fanatismo, che ha infestato gli incubi e i sogni di spettatori, ma anche di autori. In tutto il mondo. Oggetto di culto, titolo dal fascino intramontabile, dal contenuto cinefilo strabordante e fiore all'occhiello di un movimento enorme come quello dell'animazione giapponese. Soprattutto, Akira di Katsuhiro Otomo è un film complicatissimo di cui parlare.
Partiamo dalle basi. Fu il primo anime con una diffusione internazionale ad avere un trattamento paritario a quello riservato ai cartoni animati occidentali (e probabilmente anche l'unico ad essere finanziato con un miliardo di yen). Era il 1989 e neanche Nausicaä della Valle del vento beneficiò di una distribuzione esente da qualsivoglia forma di taglio o censura. Non solo, fu anche uno dei primi casi nel mondo dell'animazione in cui si ricorse ad un massiccio uso della CGI e il primo (anime) in assoluto in cui fu adoperato il pre-recording, tecnica digitale che prevede la registrazione del doppiaggio in un momento della lavorazione in cui i personaggi sono ancora delle "bozze", così da poter adattare al meglio il labiale.
Dal punto di vista del linguaggio è stato un titolo in grado di mescolare un enorme bagaglio immaginifico prettamente americano a un altro che più orientale non poteva essere. Per il trattamento dei personaggi, delle tematiche, per le idee visive della città e della mutazione del corpo (sicuramente David Cronenberg e non Shinya Tsukamoto, che con il suo Tetsuo uscì un anno dopo il capolavoro di Otomo in Giappone, non facendo mistero, anche dal titolo, di averne preso notevolmente ispirazione), per l'idea della gestione degli spazi, delle "coreografie" nei momenti di azione e per i riferimenti di trama.
Questo senza contare l'importanza che ha ricoperto per l'innovazione del genere cyberpunk, che all'inizio degli anni '80 aveva conquistato il palcoscenico cinematografico con Blade Runner, ma che con questo film ha trovato una sua straordinaria evoluzione, andando oltre il rapporto tra umanità e tecnologia e inserendo fortemente l'elemento Natura, mondo, universo. Le tre componenti base del genere fantascienza in senso più ampio, fuse in un'esplosione di morte e rinascita paragonabile a quella di 2001: Odissea nello spazio.
Akira è stato un punto di svolta, dicevamo, che ha aperto ad un futuro importante per il cinema giapponese, rappresentato la punta massima di una summa di immaginari provenienti da mondi distanti. Di più, Akira è stato ed è, ancora oggi, un mistero buffo e affascinante, che con tutte le sue imperfezioni e difficoltà di lettura, è, nel corso del tempo, divenuto esempio di un discorso sulla presa di coscienza delle paure del futuro attraverso l'elaborazione delle colpe del passato. Non più solamente orientale, ma universale. Ecco perché si parla a cadenza regolare di un suo adattamento in live action. Il 14 e il 15 marzo intanto lo trovate nelle sale in edizione 4K per i suoi 35 anni, grazie a Nexo Digital.
La massima espressione di fantascienza cyberpunk e post-apocalittica
Il manga di Akira è stato pubblicato per la prima volta nel 1982, l'anno di uscita del capolavoro di Ridley Scott, una congiunzione quasi astrale, per due titoli che si avvicinano molto per il discorso esistenzialista, ma che differiscono enormemente per conclusioni ed ambizioni.
Nell'idea di Katsuhiro Otomo c'è una umanità consumata da violenza e depravazione, in cui gli istinti prendono il posto di qualsiasi forma di raziocinio, tant'è che anche i più grandi esponenti della scienza e della politica si muovono solamente per sentimenti primordiali. Dalla paura di sparire alla tentazione di sentirsi Dio. Non c'è coscienza in niente, solamente caos perpetuo. Specialmente nell'anime, che sconta, al cospetto del manga, uno sfilacciamento nella trama, reo dover vivere (per motivi di tempo e media) di una dimensione che puntasse sull'enfatizzazione dell'importanza di essere costantemente in bilico tra futuro e passato. In un tempo sospeso.
La società del film esiste, ma non c'è, non è calcolata, è un perenne mondo in rovina, un altare che si erge in tutto il suo funereo splendore in nome della morte, di una città-universo (Tokyo) che è già caduta. Per di più adorante il motivo stesso della sua distruzione, Akira, l'altro elemento passato / futuro, che rievoca in continuazione, come se l'unica cosa che desiderasse è unirsi al suo martire, condividerne il destino. Morire con lui e poi rinascere. Forse.
Tetsuo è il tramonto e l'alba di un'epoca, è l'unione dei tre elementi di cui sopra, la sintesi della chiusura di un'era per l'accesso ad una nuova. Il Big Bang, la creazione che nasce dalla distruzione, la dispersione della coscienza che porta alla sua nuova distribuzione. Un sottotesto complicatissimo che segnò la presa di coscienza di un Paese e impressionò il mondo intero.
Akira, l'anime che ha ispirato una generazione
L'elaborazione di un trauma collettivo
Akira è l'arma di distruzione di massa, è il punto zero, è il game over. Il film è l'ennesimo (il migliore, il più struggente, ambizioso e consapevole) tentativo di elaborazione di quel trauma che ha segnato enormemente la società giapponese, sovvertendone la storia, cambiando il modo di pensare di un popolo e, di conseguenza, anche inficiando sul suo immaginario collettivo.
Gojira (il primo film è del 1954) è la personificazione più classica e di successo e che, come fa il titolo di Otomo, conta anche la Natura oltre l'uomo e la tecnologia. Un modo per il Giappone di tornare a se stesso, di fare pace con quello che gli è successo, di andare oltre i fantasmi del proprio passato, senza mentirsi.
Affrontare un senso di colpa, un rimorso collettivo, che presuppone la ricerca di una redenzione, deve però passare dall'identificazione con l'avvenimento scatenante, che ha angosciato molti e con cui hanno dovuto fare i conti anche diverse teste occidentali. Lo spettro degli spettri, di questi tempi di nuovo evocato più e più volte. Tanti sono stati i tentativi, nessuno lo è stato come lo è stato (lo è) Akira.
Guardarsi allo specchio vuol dire soffermarsi sulle proprie rughe, interrogarsi sull'entità delle cicatrici, misurare il proprio sguardo, cioè rendersi conto dei segni che hanno lasciato su di noi le nostre contraddizioni, conseguenze di quello che abbiamo passato, e, infine, riappropriarsi dei propri peccati. Rivivere la storia in tutto e per tutto. Una cosa molto simile a quando si affronta in psicoterapia il disturbo post-traumatico da stress (altro concetto molto occidentale e poco orientale), che però nel titolo si fonde con delle caratteristiche essenziali del processo di vita, morte e reincarnazione.
Il capolavoro di Otomo è infatti la presa di coscienza di diverse domande: chi siamo noi dopo aver capito quello che ci è successo? Quello che abbiamo fatto a noi stessi e agli altri? Ai nostri figli, ai nostri vicini. Che futuro possiamo avere? Cosa rimane della nostra umanità? Interrogativi di importanza straordinaria se si pensa al mondo in cui stiamo vivendo oggi, il cui destino vive di echi biblici (o fatalisti, come volete). Interrogativi a cui il cinema contemporaneo cerca di rispondere, quando decide di smettere di giocare ai multiversi, ma che a volte neanche riesce a formulare correttamente. Per fortuna Akira torna al cinema.