Recensione In America (2002)

La pellicola di Sheridan ribolle in continua fermentazione grazie ai colpi di scena, magistralmente piazzati là dove la trama rischierebbe altrimenti di scadere nel retorico, nel banale o semplicemente nel "già visto".

Addio Frankie!

Immaginate una tragedia, uno di quegli eventi dalle tinte così violentemente drammatiche da rimanere impresso come marchio indelebile d'una memoria consumata nello strazio. Immaginate di dovervi liberare dal dolore lancinante che quella memoria continua imperterrita a provocare dentro di voi; che cosa fareste? La fuga è il primo piano che balenerebbe nella mente di chiunque: scappare via da quei luoghi tanto intrisi di ricordi letali, lontano, sempre più lontano, magari nella terra dei sogni, delle speranze, delle sfavillanti illusioni, di luci, di colori... In America.

Proprio in America scelgono di andare gli irlandesi Johnny e Sarah con le loro bambine, in cerca di una nuova sistemazione, di un nuovo lavoro: di una nuova vita. Una vita tutta da ricostruire, pezzo dopo pezzo, come quella casa di legno marcio in cui si ritrovano ad abitare, in quell'edificio che cade a pezzi, covo scorticato di teppisti da strada, tossicodipendenti, alcoolisti. Fin qui niente di particolarmente strabiliante, tutto sommato: solita storiella lacrimosa di una famiglia povera che tenta di sopravvivere alla morte di un suo componente - in questo caso Frankie, il figlioletto di due anni stroncato da un tumore al cervello. Ma attenzione: proprio a questo punto Jim Sheridan dà inizio a quello spettacolo che gli è valso il maggior numero di nomination agli Independent Spirit Awards (ben sei candidature fra le quali, chiaramente, quella di miglior regista), dipingendo i caratteri dei personaggi con pennellate quanto mai speciali.
C'è Johnny (Paddy Considine), ovvero il padre, un aspirante attore che per guadagnarsi un tozzo di pane deve barattare il suo sogno con la più umile realtà di tassista; c'è Sarah, una splendida Samantha Morton nei delicati panni della mamma, una mamma che ha lasciato una parte del suo cuore lì in Irlanda, per sempre. Ci sono altresì le piccole Ariel e Christy, per l'interpretazione delle quali le sorelle Bolger, tenerissime, fanno sfoggio di una bravura recitativa degna delle migliori star hollywoodiane. Assolutamente indimenticabili le loro battute mordaci eppure così ingenue, la loro capacità di andare avanti, di insegnare ai genitori stessi ad essere forti, a non abbattersi, a guardare il mondo sotto un'altra prospettiva, come quella di un piccolo schermo tremolante di un'inseparabile telecamera bordeaux. Ma soprattutto, signore e signori, c'è lui, l'insuperabile, l'unico: Djimon Hounsou, l'attore di colore che veste i panni dell'artista maledetto della porta accanto. Mateo è il personaggio più particolare di tutto il film, il personaggio che sbalordisce sin dalle prime scene dense d'inquietudine, il personaggio che prima spaventa, poi ammalia ed infine commuove lo spettatore già rimasto ad occhi aperti in quella che è la sequenza direi storica dell'intera pellicola, la vera punta di diamante: l'unione sensuale di Johnny e Sarah. La loro passione, riaccesa dopo tanto tempo e tanta sofferenza dalla scintilla della speranza, si consuma fra tuoni e lampi, mentre Mateo si scaglia con un coltello su alcune delle sue tele, squarci gemelli dei fulmini che intanto frantumano quel cielo così nero. Geniale, sinceramente geniale.

Vero è che ci sono altre scene a dir poco degne di nota, come quella al Luna Park, dispensatrice d'indecorosa suspence scaturita da un altrettanto indecoroso gioco d'azzardo; o quella dell'incontro-scontro fra i personaggi maschili, nel bel mezzo del quale risuonano agghiaccianti due toccanti verità, da una parte "Io non esisto", dall'altra "Io sono innamorato di te! Ma anche di tua moglie, delle tue figlie, della tua rabbia... di tutto ciò che vive". Da brivido.

La pellicola guizza come in preda ad un'effervescente crisi epilettica: ribolle in continua fermentazione grazie ai colpi di scena, magistralmente piazzati là dove la trama rischierebbe altrimenti di scadere nel retorico, nel banale o semplicemente nel "già visto". Sheridan si fa maestro di emozioni, quanto di allusivi ammiccamenti: in svariati momenti, citazioni silenziose richiamano alla mente uno Scoprendo Forrester, un John Q ed ovviamente un E.T. L'Extraterrestre, ma sono soltanto accenni involontari, insignificanti granelli di quella valanga travolgente che è In America. Una valanga che ricopre con la neve grigia della più concreta quotidianità lo squallore di un'esistenza fatta di stenti, che avvolge un neonato fra le spoglie di un amico sacrificato in cambio del miracolo della vita.

Considerando che, come se tutto ciò non bastasse, la sceneggiatura è stata partorita dalla vicenda esistenziale dello stesso regista e delle sue figlie, non credo che nessuno avrebbe obiezioni nel caso in cui la preziosa statuetta dell'Academy Award per il miglior script, cui quest'opera concorre, finisse proprio nelle mani di Jim Sheridan.