Recensione Tutti al mare (2010)

L'opera corale diretta dal giovane esordiente Matteo Cerami, coraggioso nell'essersi confrontato con un cult senza tempo come quello sceneggiato dal padre, raggruppa un carrozzone senza speranze sulle stesse dune laziali del Casotto.

Quando il sole tornerà

"L'Italia è piccola, non è mica come il Giappone", rivela un tassinaro disonesto a due turisti giapponesi approdati al lido Chez Maurice convinti di essere a Posillipo. Ma il volto perplesso dei due stranieri la dice lunga e profetizza, prima ancora dell'arrivo di un assiduo iettatore, un ritratto amaro e infelice di un'Italietta che ride per non piangere. Una serie di personaggi negativi affollano dai primi raggi del sole estivo il chioschetto più malandato che si sia mai visto al cinema. A gestirlo sono Maurizio, un romano piuttosto paziente che sbraita di tanto in tanto contro il cielo e gli innumerevoli immigrati che però ha preso a servizio per i lavori manuali perché, si sa, "siamo in democrazia", e sua madre, una donna arcigna capace di comandarlo a bacchetta anche dalla sedia a rotelle. I clienti che s'incontrano e si scontrano casualmente a Ostia sono bizzarri modelli di una varia umanità, contemporanea, infelice e malinconica: da un tentato suicida che delira mentre cita l'Odissea e cerca chissà quali messaggi all'orizzonte a Nino, un cleptomane che "c'ha la malattia della capoccia" e convive con amnesie imbarazzanti. Da Nando, che rincorre la moglie dell'Est che gli ha giurato amore eterno ma poi ha cambiato idea, all'amico Gigi, supercafone spavaldo che esibisce il corpo da macho italiano. Da Giovanna e Sara, coppia di hostess omosessuali che vorrebbero godersi un po' di mare, ma devono affrontare le loro inezie sentimentali, ad Adalgisa, fiera conduttrice televisiva di un talk show con l'aria da diva nazionale. Da un nonno nostalgico che racconta la guerra di Abissinia al nipotino a un pescatore di pesce scongelato che frega tutto il litorale. Disorientati e confusi come gli extracomunitari che di sera raggiungono la battigia a bordo di un gommone, gli avventori del casotto si confrontano con le loro vite disgraziate nello stesso posto, davanti allo stesso interminabile, schiumoso e minaccioso mare.


Se la struttura narrativa di Tutti al mare riflette quella del Casotto, il capolavoro di Sergio Citti del lontano '77, la scrittura di Vincenzo Cerami sembra allontanarsene mentre si adegua ai tempi e alle nuove tematiche: l'opera corale diretta dal giovane esordiente Matteo Cerami, coraggioso nell'essersi confrontato con un cult senza tempo come quello sceneggiato dal padre, raggruppa un carrozzone senza speranze sulle dune laziali. I suoi protagonisti però non agiscono nello spazio ristretto della cabina, ma si muovono intorno allo stabilimento balneare come comparse di uno spettacolo teatrale che approdano sul palco per poi perdersi prima di lasciarlo. I loro prevedibili profili psicologici sono ordinari e appartengono più alle farse televisive che alle commedie alla Risi e Monicelli. Nei loro panni estivi si calano interpreti del calibro di Gigi Proietti, di Ninetto Davoli, di Ennio Fantastichini e di Anna Bonaiuto, ma le loro performance sbiadiscono nei ritratti mai convincenti dei loro personaggi: anche quando interagiscono l'uno con l'altro si ha l'impressione che siano estranei che non possono condividere molto eccetto un vuoto e un malessere nemmeno tanto giustificati.

Lo smemorato di Proietti, fin troppo autoreferenziale sulla scena, prova a re-agire nel segno della memoria sottratta, metafora poetica di una pagina del passato che invece Marco Giallini (Maurizio) avrebbe voluto riempire diversamente e ricordare lontano dall'ombra opprimente della figura materna. Lo strapotere televisivo della Bonaiuto, star del piccolo schermo con il look di Crudelia De Mon, e di Pippo Baudo, apparso in un minuscolo cammeo, viene usato come sottile provocazione tra una battuta pungente e una sequenza sarcastica, ma resta isolata e non trova alcun aggancio nella trama come un boomerang lanciato con energia e rimasto impigliato tra i rami di un albero. Le magagne dell'imbroglione Ninetto Davoli estraggono quel marcio umano che emergeva dal film di Citti e si prolunga nel comportamento del protagonista Maurizio, che affida agli immigrati il compito di nascondere a clienti il lercio del lido e li relega a pranzare tra le blatte e i rifiuti, dove però un'azzardata citazione pasoliniana (i due extracomunitari scoprono la bellezza del cielo come Totò e Ninetto Davoli in Che cosa sono le nuvole?) prova a elevare i toni della polemica. Fantastichini recita come in una tragedia shakespeariana la parte di un derelitto mistico che non ha il coraggio di togliersi la vita e canta versi epici disordinati ed enigmatici. Al suo strambo e misterioso personaggio sembra collegarsi sull'onda di un surrealismo scolastico l'immagine di un cavallo bianco, che irrompe improvvisamente tra i personaggi e, con determinazione inconcepibile per i suoi sbalorditi osservatori, prende la sua direzione in un batter d'occhio e se ne va. Il simbolismo si spreca tra tanti temi perché, pur volendo trovare un'interpretazione adeguata, resta disfunzionale e anzi contribuisce a calcare le fratture interne a una collettività che stenta fino alla fine ad amalgamarsi.
L'assenza di un vero collante si rintraccia anche tra i personaggi più giovani, rappresentanti esemplari di una generazione che ha fatto del precariato dell'anima uno stato perenne. Il loro catalogo mette in mostra in maniera perfino più lampante dell'altro gruppo i cliché degli italiani medi: latin lover che conquistano le furbastre donne dell'est, magari più giovani, come il Gigi di Francesco Montanari o bamboccetti troppo poco svegli per guardare in faccia la realtà come il Nando di Libero De Rienzo. Sul fondo del loro barcone generazionale si svolge la superflua relazioni della coppia Ambra Angiolini-Claudia Zanella, che dipingono nel grigiore di un'interpretazione sciatta le dinamiche di un amore fatto solo di scaramucce e dispettucci. Il loro melenso salvataggio di un topolino nero, intrappolato dall'oste Maurizio, trasmette in una sola immagine tutta l'inadeguatezza di un'ambiziosa commedia amara che accumula segni poetici e omaggi cinematografici come i mattoncini del noto gioco da tavola del Jenga: basta spostare un solo elemento per perdere la partita, ma soprattutto per togliere senso alla torre malconcia.