La gabbia d'oro della Fenice
"Hanno visto il meglio e il peggio di me", così parla del suo pubblico l'attore tormentato Joaquin Phoenix (Il gladiatore) mentre guarda verso la macchina da presa. Inizialmente infastidito, poi completamente indifferente alle telecamere, si presta a lasciarsi seguire, e perseguitare, nelle sue tumultuose giornate di sesso, droga e rap dal cognato Casey Affleck, che ha voluto immortalarlo nell'enigmatico mockumentary I'm Still Here, il suo esordio alla regia. Phoenix, l'antidivo più irriverente di Hollywood, aveva annunciato nell'autunno del 2008 il suo ritiro dalle scene per inseguire una bizzarra avventura musicale e Affleck ha ricamato sulla sua singolare decisione, la cui veridicità è già stata più volte messa in discussione dai media, un'opera che riflette l'ambigua personalità del personaggio Phoenix con il suo coraggio spudorato, il suo umorismo involontario e un alone di mistero, irrisolto fino alla fine.
Con I'm Still Here, titolo incisivo che sembra quasi annunciare un requiem all'attore-protagonista, Affleck compie un'impresa complessa, delineando il ritratto provocatorio, esplosivo e spesso scioccante e impudico di un artista impertinente e ribelle che rinnega le regole dello star system e che si sente un "bambolotto" dello showbiz, vittima predestinata degli odiati "teatrini con David Letterman", ma ha una paura ossessiva di diventare una parodia di se stesso derisa dagli spettatori. Nella prima parte del film Phoenix, smaccatamente contrariato, dichiara presto: "La mia vita diventa un film dopo aver cercato di uscirne"! E anche nel corso del film le sue frasi emblematiche sembrano così sincere che il pubblico finirà per credere a lui e alla sua originale rappresentazione. Phoenix si sente come l'uccellino che vediamo in una scena, un essere che ha sbagliato strada e andrebbe liberato. Così dopo l'ultima apparizione come attore in uno spettacolo di beneficenza realizzato in seguito alla morte di Paul Newman, decide di tagliare i ponti con il mondo del cinema e di realizzare un sogno, quello di diventare un musicista capace di rifare "Bohemian Rapsody" in hip hop. Insegue la folle chimera di un'improvvisa svolta artistica chiedendo al più quotato nel campo, nientemeno che Puff Daddy, di produrre un disco con tracce che denunciano la sua crisi esistenziale e il suo rapporto con il mondo dello spettacolo. Il Phoenix patinato, perché così lo voleva l'entertainment, si trasforma in uno straccione barbuto e imbarazzante che il pubblico, gli amici e i colleghi non riconoscono e bistrattano. "Questo è un viaggio personale", ci dice in una sequenza. Ma il guaio è che non riusciamo a distinguere l'uomo dall'attore né dal personaggio che si è cucito addosso il Phoenix che alla prima di un biopic singolare, la cui unica debolezza è la lungaggine, si è mimetizzato nel pubblico con berretto dalla visiera enorme ed occhialoni neri per non farsi riconoscere. La coppia Affleck-Phoenix ci lascia con uno stimolante quesito: a chi dei due dovremo credere? Al regista che ci ricorda, con la scelta del genere specifico, che assistiamo alla fiction spuria? O all'attore che, partecipando a questo film, ha già sconfessato il suo ritiro dal cinema? Noi francamente vogliamo credere a Joaquin Phoenix e pensare che, guardandosi sul grande schermo al Lido, abbia realizzato che c'è più di un valido motivo per cambiare idea e tornare a vestire panni che non sono suoi.