Noi, robot
Nel prossimo futuro gli essere umani non esisteranno più. Non per chissà quale catastrofe nucleare ma semplicemente per loro scelta. È questa in estrema sintesi l'idea de Il mondo dei replicanti, adattamento cinematografico di una miniserie a fumetti scritta da Robert Venditti e disegnata da Brett Weldele, con al centro l'idea suggestiva di un mondo dove gli uomini affidano il compito di interagire con il mondo esterno ad androidi robotizzati, nati per svolgere i compiti meno gratificanti dell'esistenza, ma che progressivamente finiscono per impossessarsi dell'intera vita del loro originale che li comanda tranquillamente dalle proprie abitazioni, grazie ad input sensoriali. L'utilizzo di questa incredibile tecnologia ha privato gran parte degli uomini del desiderio di vivere la loro vita reale ma ha permesso l'affermazione di una società senza problemi di sicurezza. Almeno fino a quando l'uccisione di uno studente, figlio dell'inventore dei surrogati, innesca un'escalation di omicidi a cui sono chiamati a indagare gli agenti Greer e Peters. La scoperta di un'arma capace di uccidere fisicamente l'originale collegato al surrogato costringerà Greer (Bruce Willis), da sempre riluttante all'abbandono della sua umanità, a rientrare nel mondo reale per svolgere di sua iniziativa le indagini dopo che la polizia gli ha tolto il caso, a seguito dell'abbattimento del suo androide nell'unica zona popolata da soli uomini, chiamata Coalizione umana, governata da un profeta alquanto ambiguo e ovviamente rasta.
Al di là degli obiettivi e degli intenti delle singole opere, nel tempo, la sostanza tematica e politica della fantascienza post-apocalittica ha subito uno slittamento progressivo riguardo il suo fulcro teorico: l'ansia moderna per i tempi futuri. Ridefiniti spazi e luoghi delle metropoli del futuro con una serie di classici dove si rincorre un umanesimo andato perduto, la tecnica (da Minority Report in poi, per esprimere una sintesi ovviamente superficiale) è passata da corollario sfavillante a tema del genere e si è trasformata da metafora per quanto pericolosa della grandezza umana, a universo lugubre, dominato da segni e significati inequivocabilmente pessimisti. Paradossalmente però la fantascienza moderna troppo spesso racconta la tecnica e il suo dominio solo attraverso sé stessa, finendo per depotenziare la portata del discorso nell'orgasmo ipercinetico implicito nella visione come in Io sono leggenda, dove viene tradito lo spirito del romanzo originale per rinchiudersi in un oscurantismo reazionario mal celato nella magniloquenza dell'impatto visivo. Se n'è accorto anche il cinema d'animazione con WALL·E, capace di gridare nel superlativo silenzio della sua fiaba immaginifica l'importanza dell'uomo. Anche ne Il mondo dei replicanti la morte dell'uomo non è più il risultato diretto e fisico di scelte militari o politiche, ma la cosciente e progressiva spersonalizzazione autoindotta dai propri surrogati. Surrogates è infatti il titolo originale del film e della miniserie a fumetti da cui è tratto. Metafora dura e calzante, di grande impatto, di una società che ha eliminato tutti i problemi sociali attraverso la rinuncia all'umanità. Il film di Jonathan Mostow si inserisce in un contesto improvvisamente ricco di film interessanti nel genere, come Moon e District 9, tutti inevitabilmente off-Hollywood, capaci quindi di confrontarsi con le profonde possibilità dei rispettivi plot senza essere asfissiati dal diktat spettacolare hollywoodiano che anche ne Il mondo dei replicanti finisce per fagocitare molte delle potenzialità della storia. I riferimenti ovviamente ricadono su Blade Runner, Matrix e Io Robot principalmente, ma la meccanica narrativa, nonostante un'encomiabile e salvifica sintesi (82 minuti sono una rarità difficilmente riscontrabile nel cinema americano contemporaneo) è eccessivamente vittima degli abusati meccanismi del genere, con una contrapposizione troppo schematica tra le parti: il classico campione tecnologico malfunzionante che modifica inesorabilmente l'equilibrio, il sociopatico deluso dall'utilizzo della sua invenzione (James Cromwell in un ruolo sulla falsariga del suo personaggio nella sesta stagione di 24) e Bruce Willis, un po' vittima, più per il suo approccio che per la scrittura del suo personaggio, del suo classico eroe riluttante alla John McLaine (per quanto depurato dei superuomismi e ibridato con elementi da classico detective hard-boiled) sornione e solitario, innamorato di una moglie troppo cambiata, costretto a confrontarsi con tempi che non lo rappresentano, ma dotato della scaltrezza e della tempra morale per affrontarli. Allo stesso tempo Il mondo dei replicanti funziona grazie a una pasta mai troppo seriosa che emerge anche nei momenti più tipicamente muscolari, come nell'inseguimento automobilistico dove fa capolinea un'ostentata messa in scena fumettistica. A Mostow, che non è propriamente Michael Mann, non interessa spiegare troppo e calibra bene le dosi, valorizzando il plot, senza cadute moralistiche o accenti solenni. L'immaginario costruito si mostra infatti molto flessibile e a portata di humor, specie in tutti i siparietti che includono i robot (il surrogato di Willis in particolare è esilarante con una fissità e un'acconciatura che ricordano il robot domestico de Il dormiglione di Woody Allen) che funzionano bene come metafora di una cultura improntata da una parte all'edonismo acritico, dall'altra a un modello di socializzazione estremamente fluido e provvisorio, la cui incidenza della vita on-line si dimostra sempre più determinante.