Recensione The Hurt Locker (2008)

La scelta di sposare un tema forte come quello bellico con uno stile visivo potente e un montaggio palpitante fanno si che la Bigelow realizzi una pellicola che deflagra di fronte allo sguardo attonito dello spettatore.

L'arte della guerra

Kathryn Bigelow è una regista talmente abile da tenere lo spettatore incollato alla sedia grazie al suo stile teso e adrenalico qualunque sia l'argomento fatto oggetto del suo cinema. Vi riesce una volta di più con il nuovo The Hurt Locker, presentato in concorso alla sessantacinquesima mostra del cinema di Venezia, che affronta il tema sempre più spinoso della presenza delle truppe americane in Iraq. La regista restringe il campo focalizzando la propria attenzione su un manipolo di soldati appartenenti ai corpi speciali, tra i quali spicca il sergente James (Jeremy Renner), artificiere coraggioso ai limiti dell'incoscienza impegnato nella bonifica del territorio iracheno. La Bigelow, regina incontrastata dell'action movie anni '90 grazie a pellicole come Point Break e Strange Days, si accosta al tema bellico realizzando un war movie stilisticamente sfolgorante. La sequenza d'apertura, che fotografa il primo di una lunga serie di ordigni da disinnescare nascosti dai terroristi in auto abbandonate, sottoterra o addirittura all'interno di cadaveri, è mostrata attraverso lo sguardo impassibile della telecamera montata su un robot artificiere. Segno di una sperimentazione sempre più estremizzata volta a calare lo spettatore nella realtà parossistica che vivono i soldati delle truppe speciali di stanza in Iraq, soldati che scelgono volontariamente di servire il proprio paese sia per necessità economica sia per fede nell'ideologia patriottica inculcata dai mass media allineati con le posizioni repubblicane, rischiando quotidianamente la propria vita e specializzandosi in missioni ad alto rischio per neutralizzare le armi esplosive in mano ai nemici.

La chiave di The Hurt Locker è contenuta nella citazione che apre il film e che paragona la guerra a una vera e propria droga. Entrambe creano dipendenza e assuefazione. L'intera pellicola è dedicata a dimostrare quest'assunto scegliendo di aderire senza variazioni di sorta al punto di vista dell'artificiere scavezzacollo, lo spericolato James, e dei suoi compagni di squadra Sanborn (Anthony Mackie) ed Eldridge (Brian Geraghty). La veridicità delle dinamiche psicologiche dei soldati, che la pellicola della Bigelow si ripromette di scavare a fondo per offrirne una rappresentazione assolutamente realistica e non idealizzata, è garantita dalla firma che campeggia sulla sceneggiatura, quella del giornalista embedded Marc Boal, già ispiratore del film di Paul Haggis Nella valle di Elah, che ha trascorso un mese in Iraq a stretto contatto con le truppe speciali di artificieri mostrate sullo schermo. La scelta di sposare un tema forte come quello bellico con uno stile visivo potente e un montaggio palpitante fanno si che la Bigelow realizzi una pellicola che deflagra di fronte allo sguardo attonito dello spettatore. Nelle scene clou si concentrano pezzi di bravura registica che non risparmiano focus su dettagli disturbanti ed esemplificativi della violenza causata dalla guerra, violenza che non conosce limiti coinvolgendo uomini, donne e bambini innocenti.

La tensione che si mantiene elevatissima per tutti i 130 minuti di durata sposta, però, l'ago della bilancia sul piano più prettamente cinematografico senza dare spazio alla riflessione sul contenuto del messaggio che la Bigelow vuol veicolare. La coerenza estrema della regista si concretizza in un perfetto connubio in cui la forma è lo specchio del contenuto stesso e il contenuto tende perciò ad annullarsi in essa. The Hurt Locker è una parabola sull'eroismo a tutto tondo, quello che spinge i soldati ad abbandonare famiglia e patria per immolare la propria esistenza a una causa discutibile ai nostri occhi di disincantati europei che, per essere credibile, non può e non deve mostrare cedimenti. In realtà nella pellicola vi è spazio anche per la critica e per la riflessione che aprono al dissenso, ma questo è circoscritto a poche feroci battute facenti parte di un sottotesto talmente sottile che difficilmente verrà colto dalla grossolana opinione pubblica americana e che metterà in crisi anche gli spettatori meno attenti. Il castello solidamente edificato dalla Bigelow si sostiene unicamente con la decisione del suo protagonista che sposa la causa bellica fino in fondo scegliendo di essere soldato prima che uomo. Il messaggio pacifista deflagra nel silenzio assenso a cui si piegano i militari volontari dell'esercito americano. Questi sono gli effetti della guerra. Questo è il war game medio orientale dove chi sbaglia muore, ma non può fare a meno di resistere fino alla fine. Se la guerra provoca assuefazione l'unica cura è la fine del conflitto. Ma qui il cinema si ferma e passa la palla alla vita vera. Intanto il 4 novembre 2008 è sempre più vicino.

Movieplayer.it

4.0/5