E' un film che emana New Hollywood da ogni parte, Argo. Dopo Gone Baby Gone e The Town, opere che erano entrambe, in modo diverso, omaggi a certo thriller poliziesco hollywoodiano anni '70, Ben Affleck prende di petto il cinema politico. Lo fa andando a trattare direttamente gli anni che sono (esteticamente e culturalmente) il suo punto di riferimento, traendo spunto da un fatto reale, inserendo nella sua storia anche una gustosa riflessione (auto)ironica sul cinema. Mettendo in primo piano, come già i suoi maestri, la narrazione e i personaggi, la realtà di uomini chiamati ad essere eroi, ma consci delle loro fragilità e della loro piccolezza rispetto al sistema. La storia (l'incredibile salvataggio, da parte di un agente della CIA, di sei diplomatici statunitensi bloccati in Iran nei giorni successivi alla rivoluzione, attraverso la finta realizzazione di un film) si prestava benissimo ad essere letta su più livelli, tra i quali quello della riflessione meta-cinematografica; la co-produzione di George Clooney, inoltre, non appare casuale, condividendo il regista de Le idi di marzo lo stesso immaginario cinematografico (e gli stessi temi di fondo) di Affleck.
L'attore/regista, unico presente nell'affollata conferenza stampa di presentazione del film, ha così potuto introdurre la sua pellicola, rispondendo alle numerose domande dei giornalisti intervenuti.
Il film è tratto da una storia reale. Si è mantenuto molto fedele ai fatti così come sono accaduti?
Ben Affleck: Io avevo due responsabilità: creare il miglior film possibile, che potesse intrattenere il pubblico e permettergli di empatizzare coi personaggi; e poi, essere il più possibile fedele alla realtà. Per far questo, ho dovuto romanzare qualcosa, e anche omettere delle cose, dei particolari: questo, allo scopo di non annoiare.
E' perché la maggior parte del buon "dramma" che si realizza oggi in America viene mandato in televisione. Oggi, le persone di talento lavorano nelle serie tv. La mia scelta di molti attori che lavorano in televisione è stata dettata da questo.
Il suo film sembra anche voler "riabilitare" in qualche modo il presidente Carter...
Non era quello il mio scopo. Non sono un esperto di politica, ma so che la crisi degli ostaggi creò seri problemi all'amministrazione e contribuì alla vittoria di Ronald Reagan. Però non volevo fare un film politico: semplicemente, il mio scopo era raccontare quella storia avvenuta 30 anni fa. Se alla fine ho usato la voce di Carter, era solo per ricordare che il film è ispirato a una storia vera.
Film come il suo possono contribuire a cambiare la realtà, o a farla capire meglio?
Io non credo che il cinema debba salvare le persone, non è quello il suo scopo: piuttosto, è una forma d'arte attraverso la quale le persone si possono esprimere. La mia speranza, col film, era di poter omaggiare chi si sacrifica per il suo paese. E' un bene sollevare domande e interrogativi, il cinema deve fare anche questo, ma non deve pretendere di dare lezioni.
Diversi anni fa, quando ho iniziato a pensare questo film, quelle rivoluzioni erano già vicine, c'erano le condizioni perché si verificassero. Mi ha reso felice, comunque, rendere omaggio alle persone che hanno dato la vita in quelle zone, proprio perché oggi gli eventi di allora si stanno ripetendo, con la stessa violenza.
Nel film, al di là del tema politico, c'è anche un aspetto da commedia. Il personaggio di John Goodman descrive Hollywood come "una manica di cialtroni che mentono a tutti". Secondo lei è veramente così?
Non voglio arrivare qui dicendo che Hollywood è piena di cialtroni... poi mi sarebbe difficile tornare a casa! Parole come queste sono espresse da personaggi iperbolici, Goodman è buffo quando lo dice. Però, come succede spesso per l'umorismo, c'è un fondo di verità: Hollywood è un mondo in cui tutti cercano di arrivare davanti agli altri e di sfruttare i vantaggi. Questo è un prodotto della competizione, ma non bisogna generalizzare, visto che è anche un luogo dove ho degli ottimi amici. Mi piace che il personaggio di Goodman mostri un certo cinismo nei confronti di Hollywood.
Ci sarebbe piaciuto, ma politicamente non è stato possibile. A me non fa piacere questo, avrei voluto un set autentico, per questo ho cercato di compensare facendo molte ricerche e includendo molti iraniani nella produzione; è stato molto istruttivo, ho capito un po' di più di quel luogo. Non ho sono riuscito a coinvolgere iraniani in Turchia: speravo di trovare persone che parlassero Farsi, ma non ne ho trovato nessuno che fosse disposto a partecipare al film. Evidentemente, pensavano che parteciparci li avrebbe esposti, e avrebbe esposto anche le loro famiglie.
Ha incontrato il vero Antonio Mendez?
Sì, nell'ambito delle ricerche fatte per il film, ho parlato anche con lui. E' una persona molto aperta, ci ha aiutato con la CIA e ci ha reso possibile collaborare con loro. Ha avuto anche un ruolo cameo nel film: all'aeroporto c'è una scena in cui mi marcia accanto. A giudicare dalle sue reazioni alla visione del film, o è stato educato o gli è davvero piaciuto molto.
Un'altra frase provocatoria pronunciata da Goodman è che "anche un macaco può fare il regista". Ci sono molti macachi, a Hollywood?
Beh, qualcuno ce n'è, magari anch'io sono uno di loro! Vedere lui che alza gli occhi al cielo, facendo capire che c'è un capo, ti fa capire che ritiene come ci sia qualche assurdità nell'ambiente. Fa capire anche che, per un regista, è sempre difficile sapere se un film funzionerà, considerato l'ambiente.
No, io non lavoro in base ai generi ma mi interessano le storie, i personaggi: i temi che riverberano dentro di me. Se c'è un tema che mi interessa, credo di poter affrontare qualsiasi genere: magari non quelli estremi, ma al primo posto c'è comunque la storia.
Come ha lavorato sull'aspetto di suspence, molto presente nonostante la storia sia nota? E' un elemento molto utilizzato nel cinema classico...
Gli aspetti di suspence credo siano attribuibili principalmente alla recitazione. Si empatizza con gli attori, il battito cardiaco accelera seguendo le loro situazioni. Il braccio violento della legge, per esempio, è un film pieno di suspence, ma questo è dovuto in gran parte al fatto che si empatizza col personaggio di Gene Hackman. Bisogna creare bene l'ambiente, avere la scrittura e la recitazione giusta. A volte, come regista, la cosa migliore è togliersi dai piedi, senza cercare di abbellire il film con espedienti che però lo renderebbero poco realistico.
Dopo aver dimostrato di essere un ottimo regista, è difficile per lei tornare a recitare?
In un certo senso è positivo, in un altro è negativo. Lavorare con grandi registi è un'ottima cosa, e ora, essendo stato dietro la macchina da presa, posso immaginare meglio che cosa provino i registi. Se però col regista non si crea il legame, come pure mi è capitato, diventa frustrante. Comunque, ironicamente, dopo aver lavorato come regista, non discuto più con loro, perché capisco il loro lavoro: anche se ho idee diverse dalle loro, capisco nel film è necessario seguire un percorso, un'idea, che è quella del regista.