Il temporale che si è scatenato su Locarno non ha fermato Sergio Castellitto. L'attore, che stasera, meteo permettendo, ritirerà in Piazza Grande il Pardo alla carriera, è un fiume in piena e parla con entusiasmo delle sue fatiche passate e presenti in veste di attore e regista in un lungo excursus che abbraccia trent'anni di attività artistica condivisi con la moglie, l'attrice e scrittrice Margaret Mazzantini.
Sergio, da dove nasce la tua vocazione?
Sergio Castellitto: Non si diventa attori perché si ha bisogno di comunicare. Questa è una sciocchezza. Lo si fa per apparire, per mettersi al centro dell'attenzione. Solo in seguito interviene la consapevolezza. A un certo punto della mia carriera ho sentito la necessità di ricominciare da capo, di approfondire il mio mestiere. Sono tornato a studiare, ho cominciato a scrivere e a fare il regista. Volevo sperimentare ancora il panico, quel senso di incertezza che ti spinge ad andare avanti e a migliorarti. Poi ho capito che non c'è così tanta differenza tra il mestiere di attore e quello di regista. Io mi sono sempre messo in scena da solo. De Oliveira, parlando di Mastroianni, diceva che è un attore docile, ma non servile. Questo è l'obiettivo che ogni interpete dovrebbe perseguire, essere docile senza annullarsi.
Io non provengo da una famiglia di artisti, ma di tipici lavoratori italiani che all'inizio non hanno accettato la mia scelta di fare l'attore. I miei inizi sono stati una ribellione giovanile, ma poi ho dovuto affrontare la realtà e scoprire se davvero avevo talento.
La tua docilità ti ha permesso di costruire una carriera molto varia.
Io sono un attore cerniera. Nel corso della mia carriera sono stato molto fortunato. Ho incontrato i grandi maestri: Monicelli, Scola, Ferreri, poi ho lavorato con colleghi della mia generazione, Bellocchio, Virzì, la Archibugi, e con fratellini più giovani. Non mi sono fatto mancare niente. Quando ho interpretato il pittore ateo de L'ora di religione avevo appena finito di recitare Padre Pio.
Quando hai capito di aver sfondato?
Il successo è la libertà di lavorare dove vuoi. Io ho avuto la possibilità di scegliere e ho fatto ciò che mi sembrava più interessante. Per me il cinema non è più nobile della televisione. Ho sempe cercato buoni film e spesso i fatti mi hanno dato ragione. Oggi le cose migliori vengono dalle grandi serie americane, perciò la cosa più interessante è inseguire la qualità.
Si parla di cinema e televisione, ma i tuoi esordi sono in teatro.
Tutto ciò che so lo devo al teatro. E' il luogo in cui ho incontrato mia moglie Margaret Mazzantini. Abbiamo recitato per due anni insieme i classici al Teatro di Genova. Quei due anni sono la mia vera accademia. Il teatro è il luogo che ti riporta con i piedi per terra, ti riaccoglie e ti riporta a contatto con la realtà. Ridimensiona l'ego e ti aiuta a metterti in discussione. Oggi quando dirigo un attore utilizzo i metodi appresi vent'anni fa a teatro, questo per far capire quanto l'esperienza teatrale mi è rimasta sotto la pelle.
Quando ho lavorato con Mastroianni ero ancora in Accademia e mi hanno chiamato per fare una piccola parte in un film. Fui catapultato sul set tra due giganti: Mastroianni e Michel Piccoli. Il regista era Luciano Tovoli, un grande direttore della fotografia. Dovevamo girare un primo piano di Marcello in cui la mia mano faceva entrare nell'inquadratura una medaglietta, ma tremavo come una foglia. A un certo punto ho sentito la mano di Marcello che teneva fermo il mio braccio fuori campo. Ecco, i grandi non parlano, ma agiscono.
Dopo Mastroianni C'è stato Vittorio Gassman, con cui hai lavorato sul set de La famiglia.
Pensare che il film non lo volevo fare. Avevo organizzato con Margaret una vacanza a Malta. Non so neanche perché, ma avevo rifiutato l'ingaggio. Il mio ruolo andò a Giuseppe Cederna, poi però mi richiamarono per il personaggio di Carletto e per fortuna Margaret mi convinse a annullare la vacanza. Sul set mi sono trovato a fianco di un gruppo di giganti. Io interpretavo il nipote, l'ultima generazione. Tra le scene più celebri ce n'è una in cui tutti gli altri personaggi mi riempiono di schiaffi, e poi vi è la scena in cui dopo molti anni torno a trovare il nonno che ormai vive solo nella grande casa di famiglia. Anche in questo caso ero terrorizzato, dovevo solo guardare Gassman senza dire niente, ma non sapevo dove tenere le mani. Per uscire dall'imbarazzo mormorai: "Eccomi qua.". Gelo. Gassman mi guarda, Scola mi fa chiamare nel suo ufficio e io penso "Adesso mi protesta" perché avevo osato pronunciare una battuta che non era nel copione. Invece mi ha fatto i complimenti.
Quale è la spinta creativa alla base del gesto artistico?
Un artista produce essenzialmente perché è in crisi. Un artista che non ha paura o che è troppo sicuro non produce nulla. Tornatore e la Archibugi li ho incontrati in un momento di crisi e con loro ho fatto L'uomo delle stelle e Il grande cocomero, due film in cui si percepisce la febbre, il tormento dell'arte. Questa per me è stata una grande fortuna. Se questo mestiere arriva a una dimensione fredda e lucida si spegne.
Tra i registi che ti hanno diretto c'è un gigante come Marco Ferreri, che se n'è andato troppo presto. Che ricordo ti ha lasciato?
Davvero un gigante. Un apparente cialtrone che sembrava arrivato su un set in attesa del pranzo. Stava seduto sempre un po' laterale rispetto alla macchina da presa, perché la vera macchina erano i suoi occhi. Per Ferreri l'immagine era una e una sola. Lui era molto rapido, andava sul set e inquadrava. Diceva sempre che la cosa più difficile non è scegliere cosa mettere in campo, ma cosa lasciare fuori. Da lui ho imparato moltissimo, per esempio a mettere sempre l'acqua nei miei film.
La commedia, per eccellenza, è quella umana. Ho sempre cercato di farmi ridere dietro. Per me per far ridere occorre sfruttare la propria esperienza di vita. Quando dirigo gli altri attori sono coinvolto nella scena in doppia veste, come interprete e come regista, ma mi concentro molto sui colleghi. A volte l'aiuto regista mi richiama al dovere. Il set è l'officina, il laboratorio artigianale in cui tutto accade.
In Caterina va in città di Paolo Virzì interpreti un personaggio che ricorda molto l'Alberto Sordi di Una vita difficile.
Quel film è molto riuscito, tanto che al momento dell'uscita in sala irritò molto una certa sinistra adagiata sulle proprie abitudini e sul proprio antiberlusconismo di facciata perché mostrava la crisi della piccola borghesia. Il simpatico mentecatto che interpreto si traveste da intellettuale di sinistra, inforca gli occhiali e si mette Il manifesto sotto braccio per andare a casa dei genitori della compagna di scuola di sua figlia, dove scoprirà che dietro l'apparente facciata anche loro nascondono un vuoto.
Chi ha avuto l'idea di realizzare Non ti muovere, tu o Margaret?
La collaborazione tra me e mia moglie nasce prima di tutto perché c'è l'amore. Ci conosciamo da 28 anni e da quando Margaret ha capito che la sua vocazione era la scrittura, io ho il privilegio di leggere in anteprima tutte le sue opere. La sua scrittura è molto visiva e per me è stato naturale mettere in scena le sue parole. Tra l'altro lei mi ha dato libertà assoluta, mentre ci sono scrittori molto gelosi delle loro opere. La stessa cosa è accaduta per Venuto al mondo e per La bellezza del somaro, tratto da un suo racconto mai pubblicato.
Penelope dice di aver interpretato due dei suoi personaggi più significativi proprio nei miei film. E' un'attrice molto intelligente e, quando ha accettato di interpretare Non ti muovere, ha capito che era necessario imbruttirsi per trovare una verità narrativa. Ho lavorato utilizzando obiettivi che indurivano il suo volto e le ho detto che ci sarebbe stato un unico primo piano in cui sarebbe stata bella, quello da morta perché sarebbe tornata adolescente, ma lei si è sottoposta a ogni mia scelta. Ecco cosa significa interprete docile.
Nel tuo passato ci sono Don Milani, Fausto Coppi, Enzo Ferrari, Padre Pio. Con quale forza ed energia si affronta un pubblico eterogeno come quello televisivo calandosi nei panni di personaggi realmente esistiti?
Sono quattro lavori fondamentali. Innanzi tutto quando affronti un biopic hai delle informazioni in più rispetto al solito per costruire il personaggio. Queste esperienze mi hanno insegnato a essere un attore divulgativo. Interpretando Coppi ho imparato a capire cosa sia realmente la fatica. Don Milani è stata una figura rivoluzionaria, è l'uomo della ragione, credo che detestasse Padre Pio perché era proprio l'opposto. La Toscana intellettuale e anche un po' snob contro la terra delle streghe, il profondo Sud.
Nel corso della tua carriera hai lavorato a lungo anche in Francia.
Ho avuto l'opportunità di lavorare in Francia nel momento in cui il cinema italiano era in crisi. Non ho lavorato in coproduzioni in cui chiedevano attori italiani, ma sono stato direttamente chiamato da artisti francesi che mi volevano nelle loro opere. L'incontro con Jacques Rivette è stato un passaggio fondamentale della mia vita artistica perché ho potuto lavorare con il padre della Nouvelle Vague. La sua autorevolezza, la sua eleganza e il suo carisma per me sono indimenticabili. Aiutarlo nella messa in scena e nella creazione dei movimenti degli attori per me è stata un'esperienza estremamente istruttiva, anche perché mi ha dimostrato grande fiducia lasciandomi libero nella creazione.
Io non voglio essere un monumento. Voglio essere uno che si alza la mattina e va a lavorare. E poi ho quattro figli che vanno dai 23 ai 7 anni quindi ho da risolvere problemi dall'università alle elementari.
Tra i registi italiani non hai mai lavorato con Nanni Moretti. Come mai?
Non credo che Nanni abbia bisogno di attori come me.
Quando parli della tradizione attoriale italiana sostieni che l'attore italiano lavora sempre 'sopra le righe'. Cosa intendi?
Il metodo americano, che in realtà nasce in Russia con Stanislavskij, deriva dal naturalismo e quindi dalla verità. La recitazione italiana è figlia della Commedia dell'Arte che è fatta di maschere. Non imita, ma rappresenta. Il fondamento non è naturalistico, noi siamo figli di un'elegantissima buffoneria.
Quale è il tuo rapporto con la politica?
L'arte è sempre un gesto politico. Scegliere di fare un film piuttosto che un altro è un gesto politico. Diffidate dei film direttamente politici. C'è più politica dentro un quadro di Picasso perché il pubblico è costretto a pensare in un modo diverso. Non ti muovere è un film politico perché c'è una povera e un borghese. Ciò che temo è soprattutto la demagogia. Ora dirò una cosa impopolare, ma il primo Andreotti è stato più attento al cinema di molti ministri che sono venuti dopo di lui. Che cosa vi aspettate da una classe politica che fa cadere Pompei a pezzi e pensa di costruire una discarica vicino a Villa Adriana, un patrimonio dell'umanità.
Tra le tue ultime esperienze c'è la serie tv In Treatment che ha avuto molto successo. Che tipo di esperienza è stata?
La sfida di In Treatment è stata vinta con inaspettato successo, ma aver preso una serie americana che in Italia non era stata ben accolta e reinventarla è stato qualcosa di molto coraggioso. Giravamo un episodio e mezzo al giorno in diretta con tre cineprese. E' stato molto interessante e spero che Sky continui a sperimentare in questa direzione. Penso che ci sarà una seconda stagione, ma attendo la conferma.
Cosa diresti a un giovane che vuole provare a fare l'attore in Italia oggi?
Fallo. La giovinezza ha un solo diritto. Quello di provarci.