Cento percento che è lì. Ok, novantacinque, perché la certezza vi fa perdere la testa. Però è cento.
La prima occasione in cui osserviamo il volto di Maya Harris è quando, dopo aver assistito all'interrogatorio del pakistano Ammar, si sfila di dosso un passamontagna nero. Pochi minuti dopo, alla ripresa dell'interrogatorio, Maya fa ritorno nel cosiddetto black site, ma con il viso scoperto; mentre Ammar è sottoposto alle procedure di tortura da parte degli agenti della CIA, la macchina da presa ci mostra il silenzioso disagio nell'espressione della donna, la sua reticenza nel mantenere fisso lo sguardo sullo spettacolo che si sta consumando di fronte a lei. Qualche scena più tardi si trova di nuovo al cospetto di Ammar mentre l'uomo, incatenato e seminudo, la supplica di aiutarlo; stavolta Maya si rivolgerà in maniera diretta al prigioniero, ma con parole di gelida imperturbabilità. Repulsione e freddezza sembrano dunque convivere nella figura attorno alla quale Kathryn Bigelow ha costruito il suo Zero Dark Thirty: un'analista della CIA la cui prospettiva costituisce il nostro unico punto di vista sull'intero racconto.
Tanto il precedente The Hurt Locker del 2008 era imperniato sulla suspense, sul susseguirsi incessante di esplosioni e di pericoli, quanto Zero Dark Thirty è al contrario un racconto sviluppato sull'ascolto, sull'attesa, sulla lentezza metodica dell'indagine. Instant movie per antonomasia del cinema americano post-11 settembre, Zero Dark Thirty fa il suo debutto nelle sale americane il 19 dicembre 2012, vale a dire ad appena un anno e mezzo di distanza dal raid militare che, nella notte fra l'1 e il 2 maggio 2011, aveva portato all'uccisione di Osama bin Laden, l'individuo più ricercato del pianeta. Un avvenimento che, giocoforza, induce Kathryn Bigelow e il suo sceneggiatore Mark Boal a modificare e ampliare la struttura narrativa del film, inglobando al suo interno la conclusione della più celebre caccia all'uomo dell'epoca contemporanea. L'eco dell'eliminazione di bin Laden, ideale punto d'arrivo dell'oscuro decennio delle "guerre al terrorismo", favorisce l'interesse collettivo per l'opera della Bigelow soprattutto negli USA, dove Zero Dark Thirty registra dodici milioni di spettatori.
L'America dopo l'11 settembre
Ma il successo al box-office, gli elogi della stampa e le cinque nomination agli Oscar, tra cui miglior film, sono accompagnati da una ricezione decisamente controversa, che dal dibattito critico si estende a quello politico. A suscitare polemiche, in particolare, è la rappresentazione delle famigerate "tecniche di interrogatorio potenziato" autorizzate dall'amministrazione di George W. Bush e messe in atto da Maya e dagli altri agenti della CIA nella prima parte della pellicola, quella ambientata nel periodo antecedente alla Presidenza di Barack Obama. Lascia spiazzati, nel 2012 come oggi, la difficoltà nell'incasellare le azioni dei personaggi in uno schema morale ben definito: una difficoltà legata al lucido realismo adottato da Kathryn Bigelow, che non stempera la durezza di tali pratiche ma neppure si crogiola in un'esasperazione della sofferenza, e ancor di più al rigore quasi 'burocratico' dei personaggi.
Nella loro ambivalenza, nel modo in cui l'abnegazione alla causa convive con la brutalità dei metodi, risiede l'interrogativo irrisolto di Zero Dark Thirty: cos'è diventata l'America - e, per estensione, il mondo occidentale - dopo l'11 settembre? Maya, che ha le sembianze diafane della trentacinquenne californiana Jessica Chastain (all'epoca appena giunta alla ribalta sulla scena cinematografica grazie a The Tree of Life e The Help), pare incarnare le ossessioni e il desiderio di rivalsa di una nazione alle prese con l'angosciosa consapevolezza della propria vulnerabilità (il film è aperto dalle registrazioni audio di alcune vittime degli attentati alle Twin Towers) e con un nemico sfuggente e invisibile, quasi alla stregua di un fantasma. L'umanità di Maya è testimoniata dal ribrezzo che la donna lascia trapelare mentre partecipa alle torture; e tuttavia il ribrezzo, con tutto quello che forse si porta dietro, finisce per dissolversi dietro una maschera di inflessibilità e di determinazione.
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La caccia a bin Laden e lo sguardo di Maya
A Jessica Chastain, ricompensata con il Golden Globe e la nomination all'Oscar come miglior attrice, spetta il compito di far affiorare la complessità di una protagonista priva di un background definito o di motivazioni 'personali', con una performance in sottrazione che suggerisce e allude, ma lascia anche libero spazio alla nostra interpretazione. Per certi versi, la sua Maya potrebbe ricordare il commissario Matthäi de La promessa di Friedrich Dürrenmatt per la logorante dedizione a una causa che assorbe e vampirizza ogni aspetto della sua esistenza; d'altro canto, la sua fiducia nella validità del proprio lavoro e la sicurezza granitica con cui tiene testa a colleghi e superiori ne connotano una dimensione quasi 'eroica', pur con tutte le ambiguità del caso. Ciò nonostante, Kathryn Bigelow si tiene ben lontana dal sensazionalismo del war-movie, così come dall'esaltazione sciovinistica: a partire dal re-enactment dell'omicidio di Osama bin Laden, realizzato con uno stile semi-documentaristico in cui non vi è traccia di enfasi epicizzante né di trionfalismi.
In tale ottica, la sequenza conclusiva risulta emblematica dell'approccio della Bigelow, refrattario ai cliché e scevro di ogni retorica. Nelle tinte notturne della fotografia di Greig Fraser, Maya ci appare come un'esile sagoma solitaria che avanza tra la piccola folla in movimento dei Navy SEAL, diretta verso il feretro di quel temibile avversario che perfino ora, dopo la sua uccisione, ci viene precluso alla vista, se non per un minuscolo brandello del volto. "Dove vuole andare?", è la domanda posta a Maya nella scena successiva, a missione compiuta, mentre si siede a bordo di un velivolo deserto. La sola risposta è il silenzio della donna e uno sguardo velato di lacrime. Sollievo? Sgomento? Horror vacui? L'enigma di quel primo piano è un epilogo che non dà soluzioni, ma che dalla grandezza della Storia ci fa ripiombare all'essere umano, al suo endemico smarrimento e alla sua intimità indecifrabile.
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