Recensione Tôkyô! (2008)

Gondry soprattutto riesce, molto più che nelle sue ultime due opere, a equilibrare il suo febbrile istinto grafico e astratto con una storia molto semplice e lineare, lontana da vacui intellettualismi.

Vivere soli a Tokyo

Non c'è grande festival, da un po' di anni a questa parte, che rinunci a inserire nella selezione un film a episodi, specie se firmato da registi autorevoli e eterogenei. Film che mediamente piacciono molto ai selezionatori e un po' meno al pubblico, nel migliore dei casi disorientato dalle proposte. A Cannes poi, pare che abbia preso piede l'inserimento di un triplo mediometraggio, per l'occasione in versione parabola morale sulla solitudine a Tôkyô!. Eppure, nonostante le premesse e gli scetticismi, l'opera corale prodotta da Comme des Cinémas, con il sostegno di Arte France Cinéma e firmata da Michel Gondry, Leos Carax e Bong Joon-Ho sorprende sotto molti aspetti.
Gondry soprattutto riesce, molto più che nelle sue ultime due opere, a equilibrare il suo febbrile istinto grafico e astratto con una storia molto semplice e lineare, lontana da vacui intellettualismi. Un giovane regista ingenuo e entusiasta e la sua fidanzata decidono di muoversi a Tokyo dove li attende un'amica comune che li ospita per un po' nel suo minuscolo appartamento. Gondry riflette sulla solitudine e sul senso di inutilità con una metafora particolarmente riuscita, trasformando la sua protagonista progressivamente in una sedia di legno, con un garbo e una leggerezza che colpisce.

Tinte apocalittiche e disturbanti invece nell'episodio di Leos Carax, dall'esplicativo titolo "Merde", tutto centrato sulla magnetica prova di Denis Lavant, nei panni di una sorta di mutante che vive nelle fogne di Tokyo e esce allo scoperto solo per fare incetta di cibo, spaventando a morte la città, fino a aggredire fisicamente i cittadini con delle bombe a mano. Processato e giustiziato da una giuria incapace di comprenderlo se non attraverso un bizzarro avvocato francese che ne capisce il linguaggio.

Bong, infine, nonostante sia indubbiamente il regista più dotato del lotto, firma l'episodio meno caratterizzante, centrato su un giovane ragazzo deciso a spendere tutta la sua vita imprigionato in casa, evitando qualsiasi contatto sociale. Se qua e là emergono echi del più tipico humor nero del regista di Memories of Murder e The Host, è chiaro che Bong non sente particolarmente sua questa storia e si limita a raccontarla con la sua straripante padronanza tecnica. La compostezza stilistica di Bong è tale che il suo cinema pare controllato anche durante un terremoto, riuscendo a fare passare tutte le emozioni del suo personaggio attraverso un sapiente uso dei campi di ripresa e dei cambi focali. Un esercizio di stile, probabilmente, ma che conferma tutte le potenzialità del regista coreano.