Recensione Il mio paese (2006)

Il documentario di Daniele Vicari abbandona i luoghi comuni sul bel paese proponendo un'indagine lucida e ben documentata sulla situazione lavorativa dell'Italia contemporanea.

Viaggio in Italia

"In Italia si sta male" canta Paolo Rossi a Sanremo. "In Italia si sta male" gli fa eco il campione intervistato dall'Università di Cambridge in un recente sondaggio dal quale risulta che il popolo italiano è uno dei più infelici d'Europa, contraddistinto dalla mancanza di fiducia nelle istituzioni, nel sistema sociale e nell'avvenire. Ecco che in un momento così delicato esce nei cinema Il mio paese, documentario di Daniele Vicari presentato a settembre a Venezia che abbandona i luoghi comuni sul bel paese proponendo un'indagine lucida e ben documentata sulla situazione lavorativa dell'Italia contemporanea. Il lavoro di Vicari affonda le sue radici nella pellicola realizzata nel 1959 dallo storico documentarista olandese Joris Ivens e commissionata dall'allora presidente dell'ENI Enrico Mattei. Il film di propaganda, pomposamente intitolato L'Italia non è un paese povero, testimoniava lo sviluppo economico nazionale evidenziando l'impegno crescente dell'ENI nell'estrazione di petrolio e metano e la costruzione della prima centrale nucleare a Latina per poi terminare a Gela con il matrimonio tra una ragazza siciliana e un operaio del Nord che lavora su una piattaforma off-shore.

Daniele Vicari ribalta la prospettiva scegliendo di partire proprio dalla stessa Gela per seguire il percorso di un pullman che trasporta i lavoratori dalla Sicilia in Germania, un "viaggio della speranza", lavorativamente parlando, scandito da tappe successive (la Sicilia industriale, lo stabilimento Fiat di Melfi, la realtà complessa di Prato con le sue industrie tessili fagocitate dalla Chinatown che incalza, il Petrolchimico di Porto Marghera) fino a tracciare un'ipotetica mappa della situazione attuale. Dal quadro generale emergono discrepanze fondamentali rispetto al passato, in primis un livellamento delle differenze tra Nord e Sud accomunati attualmente, più che dal dislivello industriale, dall'incertezza e dalla precarietà. All'emigrazione verso il Nord Europa ancora promettente agli occhi dei lavoratori meridionali, si aggiunge lo spaccato sociale toscano dove l'innesto di una folta comunità di immigrati cinesi ha modificato radicalmente il panorama socioeconomico causando il collasso della strategia imprenditoriale dominante negli anni'80.

Al regista non preme tanto indicare possibili soluzioni future alla crisi economica che emerge impietosamente dal documentario quanto focalizzare l'attenzione sui cambiamenti in atto nel mondo dell'industria e sulle profonde modificazioni del tessuto sociale. Le interviste mirate che costellano la pellicola, in particolare quella del veneziano Gianfranco Bettin posta come chiosa, evidenziano la presa di coscienza da parte del ceto operaio che vive sulla propria pelle i cambiamenti e la necessità di riqualificazione del sistema industriale per muovere i passi necessari verso la rinascita. Qua e là si aprono prospettive future di miglioramento e di sviluppo, ma senza mai insabbiare le difficoltà attuali. In questo senso l'onestà intellettuale di vicari è il maggior pregio di un lavoro che non ha la brillantezza e la rabbia di certi documentaristi americani contemporanei, ma che si rimbocca le maniche per offrire un quadro il più possibile realistico e obiettivo del presente. La pecca principale di questo lavoro rimane la lunghezza, unita al ritmo lento e meditativo, ma a tratti capace di colpire lo spettatore semplicemente mostrando aspetti della realtà a cui raramente si presta attenzione.

Movieplayer.it

3.0/5