Recensione John Carter (2012)

Nato nel lontano 1912 dalla penna di Edgar Rice Burroughs, meglio noto per essere il creatore di Tarzan, John Carter si presenta come un immenso compendio del genere fantasy, un lungo viaggio verso le forme, i personaggi e le situazioni che hanno definito la narrazione stellare e la struttura di un ipotetico panteon fantascientifico e non solo.

Viaggio al centro dell'universo

James Cameron si è ispirato alle sue avventure per definire la trama di Avatar, mentre da più di settant'anni il cinema tenta di portare sul grande schermo l'indomito coraggio del guerriero spaziale capace di caratterizzare l'infanzia di molte generazioni d'americani e non. Stiamo parlando di John Carter che, nell'anno del suo centenario non solo dimostra come i miti, soprattutto quelli giovanili, siano destinati all'immortalità ma realizza il sogno di una seconda stagione artistica. E' così che, nato nel lontano 1912 dalla penna di Edgar Rice Burroughs, meglio noto per essere il creatore di Tarzan, e protagonista del ciclo Barsoon, l'eroe di Marte festeggia questa importante ricorrenza con un'avventura cinematografica prodotta dalla Disney Pictures e diretta dal premio Oscar Andrew Stanton (Alla ricerca di Nemo, WALL·E) alla sua prima esperienza nel live action. Un'operazione che, utilizzando le ormai note tecniche del 3D, si lascia sedurre dalla tentazione di mettere finalmente in scena tutto l'universo epico evocato dalla letteratura popolare di Burroughs prendendo come ispirazione il primo capitolo del ciclo Sotto le lune di Marte in cui un disilluso ufficiale reduce della Guerra Civile Americana viene catapultato, dopo essersi rifugiato in una grotta per fuggire alla minaccia indiana, all'interno di un universo tanto immenso quanto sconosciuto. Ad "accoglierlo" sono delle creature a prima vista mostruose, una nuova guerra civile e una principessa guerriera disposta a tutto pur di vincere il suo testardo disinteresse per "la giusta causa" e vederlo schierare a difesa della sopravvivenza del pianeta .


Dunque, per tutti gli appassionati della planetary romance, l'eroe solitario torna ad affrontare le insidie di un mondo sconosciuto popolato da razze indigene non propriamente aperte al dialogo. A sostenerlo e renderlo quasi imbattibile negli scontri con i giganteschi Uomini Verdi sono la sua eccezionale abilità con la spada, un'inaspettata agilità dovuta all'assenza di forza di gravità sul pianeta rosso e un coraggio al limite dell'incoscienza. Completano il quadro un senso dell'onore inattaccabile, che lo porta a stringere un'amicizia fraterna con l'ex nemico Tars Tarkas, e un romanticismo un po' guascone ispirato al prototipo maschile di frontiera perfettamente rappresentato dal cow boy per eccellenza John Wayne. Un insieme di elementi, questi, che fanno di lui il primo uomo delle stelle, protagonista inconsapevolmente destinato a definire un'epopea fantascientifica cui molti registi, senza escludere George Lucas e le sue indimenticabili Guerre Stellari, sembrano aver attinto ampiamente. Con questo materiale letterario e quasi mitologico lo sceneggiatore premio Pulitzer Mark Andrews e il regista Andrew Stanton si sono confrontati nel tentativo di fondere la ruvidezza del linguaggio di Burroughs con lo stile visivamente più ricercato che la Disney sta perseguendo, soprattutto dopo l'avvento della Pixar.

Il risultato è un film appartenente alla cultura popolare del fumetto e alla vasta evoluzione cinematografica, per l'occasione rivisitata attraverso l'uso di una tridimensionalità onestamente superflua. Fonte d'ispirazione inesauribile, John Carter si presenta come un immenso compendio del genere, un lungo viaggio verso le forme, i personaggi e le situazioni che hanno definito la narrazione stellare e la struttura di un ipotetico pantheon fantascientifico e non solo. Perché, se da una parte è possibile rintracciare con facilità immagini riconducibile ai viaggi spazio temporali di Lucas, Lynch e Cameron, dall'altra non è difficile seguire le tracce del grande cinema americano in cui il coraggio del gladiatore, l'onore del soldato e l'impavida incoscienza del conquistatore del west si amalgamano con la consapevolezza del prescelto. Una scelta in parte rischiosa attraverso la quale sceneggiatore e regista si dichiarano non solamente perdutamente conquistati dal soggetto originale, ma evidenziano la complessità e la completezza di una saga in grado di comprendere stili e linguaggi diversi in un insieme tutto sommato armonico. Unica nota dolente è l'immancabile e sdolcinato perbenismo disneyano che, come spesso accade, molto attutisce e tutto condiziona.

Movieplayer.it

3.0/5