Venezia 70, Alex Gibney ci parla di The Armstrong Lie

Il nostro incontro con il regista premio Oscar che nel suo documentario, presentato nelle proiezioni speciali Fuori Concorso, racconta la storia del ciclista americano, squalificato a vita per aver fatto uso di doping: 'Ho dovuto bilanciare il mio bisogno di credere ad un eroe e vedere le cose come sono', ci ha raccontato l'autore.

Appare calmo e rilassato Alex Gibney quando lo incontriamo; siamo isolati dal caos di una tipica giornata del Festival di Venezia e sembrano esserci le condizioni ideali per parlare della sua ultima fatica, The Armstrong Lie, documentario presentato nelle proiezioni speciali Fuori Concorso. Gibney è tra i documentaristi più importanti e apprezzati, premiato nel 2008 con l'Oscar per Taxi to the dark side, e dopo aver affrontato gli argomenti più disparati, come lo scandalo Enron, mette sotto i riflettori uno dei campioni più celebri dello sport americano, il ciclista Lance Armstrong, pluripremiato al Tour de France e ormai fuori dal circuito professionistico dopo le ammissioni relative all'assunzione di doping. Nato su commissione nel 2008 come documentario che avrebbe raccontato il ritorno in pista del ciclista e il suo tentativo di vincere la Gran Boucle a tre anni di distanza dall'ultima volta, il progetto si modifica col passare del tempo e dopo la squalifica a vita comminata ad Armstrong dall'Agenzia anti-doping statunitense, che gli ha tolto tutti i successi ottenuti dal 1998 in poi, il lavoro di Gibney è diventato quello che è oggi, un'essenziale e asciutta disamina dell'etica sportiva, un faccia a faccia teso e diretto tra uno dei cineasti più attenti alla resa della verità e un uomo che ha mentito al mondo intero.

Signor Gibney, è stato difficile cambiare in corsa il suo film?
E' stato come afferrare la coda di un drago che si divincolava. O rimanevo sul drago, oppure sarei stato sbattuto lontano. Ho deciso che sarei rimasto aggrappato.

Il suo lavoro racconta la vicenda di Armstrong attraverso il punto di vista di un sostenitore appassionato come lei. Com'è riuscito ad equilibrare il bisogno di raccontare la verità, con la delusione per il comportamento scorretto di un mito?
Partiamo dal fatto che quando si ama qualcuno, lo si segue con devozione, hai bisogno di credere che quello che ti dice sia vero, devi credere che sia un eroe, è una cosa importante perché rappresentano dei modelli. Eppure, ho imparato che non si può prendere tutto per oro colato. Se pensi che siano tutte stronzate, diventi cinico, ma se accetti tutto passivamente allora diventi un credulone.

Ma nella prima parte del film, quella girata nel 2009, le ha mentito guardandola negli occhi...
E questo mi ha fatto incazzare, devo dire però che mi è capitato un sacco di altre volte che qualcuno mi mentisse. Devo ammettere che poi è stato interessante capire dove sarebbe arrivato. Un po' come quando senti il discorso di un politico e lo vorresti prendere da parte, chiudere il microfono e dirgli, "ok, basta con queste stronzate, lasciamo perdere tutto, ora mi dici la verità". A volte però si preferisce una bella bugia ad una bruttissima verità.

In una sequenza brevissima Lance Armstrong e Bill Clinton condividono lo stesso palcoscenico; in un certo senso entrambi sono stati dei bugiardi, hanno tradito la fiducia che il popolo americano aveva riposto in loro e questo comportamento raramente viene perdonato. Cosa succede quando crolla questa certezza, quando a mentire è un punto di riferimento culturale per una nazione?
E' dura, tanto dura, ma può anche essere liberatorio. Però voglio dire una cosa. Armstrong se la sogna la stessa carriera che ha avuto Clinton dopo lo scandalo Lewinski. Clinton è un uomo ancora popolare, nonostante abbia compiuto un atto gravissimo, mentendo al Grand Jury e spergiurando di non aver fatto sesso con quella donna nella Sala Ovale della Casa Bianca. Eppure gli americani lo hanno perdonato. E' rimasto al potere perché è un seduttore. Armstrong invece è temuto dalla gente, non è amato.

Questo aspetto del suo carattere, il suo essere prevaricatore e aggressivo emerge chiaramente nel film...
Armstrong è un uomo carismatico, con una storia emotivamente potente alle spalle, e proprio per questo intimidisce le persone. Questa vicenda insegna una lezione, forse non buona, ma valida, e cioè che se qualcuno mette in dubbio ciò che fai o dici e reagisci con aggressività, le persone fanno un passo indietro. Lo si vede nella scena in cui Armstrong attacca il giornalista irlandese che gli ha fatto una domanda precisa sul doping; gli dice, "Non meriti la sedia su cui siedi" e in quel preciso istante nessuno ha ricordato quale fosse la domanda e Armstrong ha ribaltato la situazione in suo favore.

Non teme che il film possa essere troppo tecnico e per chi non segue il ciclismo e troppo poco per chi invece è un appassionato di questo sport?
Non credo perché l'appeal di Armstrong è di gran lunga superiore alla popolarità di uno sport come il ciclismo.

In che modo pensa di essersi sottratto dal grande carrozzone mediatico che ha prima santificato Armstrong e poi lo ha abbandonato?
E' vero, prima hanno preso l'eroe buono e poi lo hanno trasformato nel cattivo perfetto, senza guardare la trave nei propri occhi, ma io ho solo voluto esplorare la storia, non sfruttarla.