Recensione The Armstrong Lie (2013)

Questa è la storia di un vincitore nato che ha dovuto fare i conti con la sconfitta più grande, di un despota violento e prevaricatore, di un bugiardo così abituato a dire fandonie da crederci ciecamente, di un combattente, un sopravvissuto che ha saputo ispirare gli altri e che allo stesso tempo ha infranto gli stessi valori in cui credeva.

Il lato oscuro della forza

Sono vicini solo per pochi istanti sul grande schermo Bill Clinton e Lance Armstrong, ma è una delle immagini più dense di significato del documentario firmato da Alex Gibney, The Armstrong Lie, presentato alla 70.ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Fuori Concorso (categoria proiezioni speciali); in comune avevano il fatto di essere amati e rispettati dal popolo americano e, soprattutto, di avergli mentito, giurando il falso. Il presidente che ha negato pubblicamente di aver avuto una relazione con Monica Lewinski, trova così il suo doppio nel venerato campione, che al termine di una carriera carica di allori, ha gettato la maschera ammettendo di aver fatto uso di doping. Di aver barato, aggiungiamo noi, anche se su questo punto il texano non sarebbe d'accordo. Il regista premio Oscar descrive in maniera esauriente l'enigma incarnato da Lance Armstrong e lo fa aggrappandosi alla verità dei fatti, alle testimonianze di molti dei protagonisti, senza mai dimenticare la sua partecipazione emotiva alla vicenda di uno sportivo che ha costruito la sua vita sulla menzogna.

Nato a Plano nel '71, Armstrong inizia brillantemente la carriera professionistica, guadagnando tanto e imponendosi all'attenzione di tutti come il ragazzo duro che non ci sta a perdere; nel 1996, tre anni dopo essere diventato campione del mondo, scopre di avere un cancro ai testicoli, da cui guarisce nel 1998. Lance non è più il giovanotto strafottente che prende a calci la vita, ma neanche davanti alla malattia, al crollo del fisico, riesce ad accantonare l'atavico bisogno di vincere. Per tornare in pista quindi e riprendere da dove aveva terminato, il ciclista inizia a sottoporsi a pratiche dopanti. Entra nelle grazie del dottor Michele Ferrari che lo guida in una delirante spirale che gli frutta un numero incredibile di successi. Arrivano i sette Tour de France vinti consecutivamente dal 1999 al 2005, prima con la U.S. Postal poi con la Astana.

I sospetti sulle squadre e su di lui continuano a moltiplicarsi, ma in qualche modo riesce a farla sempre franca. Nel 2005 l'annuncio del ritiro, seguito dalla decisione di tornare in pista nel 2009 per un ultimo Tour de France e dimostrare al mondo di poter vincere in maniera pulita. Senza doping, però, Lance non riesce ad essere incisivo, se si eccettua un'unica tappa, quella sul leggendario Mont Ventoux. A 38 anni, con un compagno di squadra come Contador in rampa di lancio, il texano molla la presa. Non la molla invece l'USADA, l'agenzia antidoping statunitense, che dopo un lunghissimo iter giudiziario squalifica a vita Armstrong, sanzione seguita dalla decisione dell'UCI, l'Unione Ciclistica Internazionale, di annullare tutte le vittorie conquistate. E' l'ottobre 2012, tre mesi dopo, nel gennaio del 2013, Armstrong confessa a Oprah Winfrey di aver assunto sostanze illegali.
Gibney inizia a progettare il documentario su commissione nel 2008 come lavoro che avrebbe narrato il ritorno in pista del ciclista e il suo tentativo di vincere la Gran Boucle; poi, una volta scoppiato il bubbone, riprende la macchina da presa per raccontare l'altra faccia della medaglia, accantona la favola del campione ritrovato e lavora su quella del grande bugiardo. Forse il senso di questo bellissimo film è proprio questo, scavare in profondità nell'animo di un uomo che non ha esitato a mentire pur di vincere sempre. Il documentario appassiona perché il punto di vista di Gibney non è affatto asettico o distante; non si vergogna di ammettere termini di aver provato simpatia per Armstrong e di aver tifato per il texano nella famosa tappa del Tour, sul Mont Ventoux, che ha rappresentato l'apice del non memorabile rientro alle corse.
Proprio per questo, la delusione che si percepisce nitidamente nella voce fuori campo del regista appare vera e genuina. In un certo senso Gibney è lo spettatore perfetto, incarna magnificamente le speranze disilluse dei supporter del ciclista. Dal punto di vista drammaturgico nessuna sceneggiatura di un lungometraggio di finzione può toccare le vette delle dinamiche che hanno animato l'entourage di Armstrong, una comunità soverchiata da questa specie di padre padrone che ha trasformato gli amici in nemici e ha trovato invece un sostegno inaspettato da parte di acerrimi antagonisti. Questa insomma è la storia di un vincitore nato che ha dovuto fare i conti con la sconfitta più grande, di un despota violento e prevaricatore, di un bugiardo così abituato a dire fandonie da crederci ciecamente, di un combattente, un sopravvissuto che ha saputo ispirare gli altri e che allo stesso tempo ha infranto gli stessi valori in cui credeva. Voleva il lieto fine, Armstrong, ma ha trovato solo l'inizio della fine.

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4.0/5