Recensione Colpo d'occhio (2008)

Una pellicola che si dimostra estremamente ambiziosa nell'ambito del disvelamento dei rapporti fra uomo e donna, delle relazioni umane, sentimentali e professionali, nel loro complesso.

Uno strano contrappasso

Colpo d'occhio.
Tradotto in inglese suona come Eyes Wide Shut. Esatto, proprio come l'ultima fatica del grande e compianto maestro Stanley Kubrick.
Sergio Rubini, il regista del film in uscita in questi giorni, dice di essersene accorto solo pochi giorni prima dell'uscita nelle sale.

Che sia vero o no, la pellicola che annovera Riccardo Scamarcio, Vittoria Puccini e lo stesso Sergio Rubini nel cast si dimostra estremamente ambiziosa nell'ambito del disvelamento dei rapporti fra uomo e donna, delle relazioni umane, sentimentali e professionali, nel loro complesso. Ambito dove proprio l'opera di Kubrick si era destreggiata.
Come elemento aggiuntivo, il regista inserisce nel suo triangolo amoroso l'ambivalenza tra arte e critica, tra lavoro manuale, concreto e il "lavorare con le parole", a partire sempre da qualcosa di non proprio, ma frutto della fatica dell'estro e dell'ingegno di un altro.
Riccardo Scamarcio è così Adrian, un giovane artista che si innamora, ricambiato, di Gloria, a sua volta la protetta del potente e temuto Lulli, incarnato dal mefistofelico Rubini, critico e mercante d'arte di fama internazionale. L'amore che sboccia fra i due non lascia indifferente il critico, che, nonostante le apparenze dimostrino il contrario, coverà un sordo e violento rancore nei loro confronti.
Un triangolo atipico nelle forme, non nella sostanza. Le dinamiche del film sono abbastanza consuete, e non vengono aiutate da quel piglio e dal quel tocco di originalità che Rubini aveva fatto intravedere con ottimi risultati nel suo precedente lavoro, La terra.
Anzi, a tratti la messa in scena si dimostra purtroppo convenzionale e falsa, non riuscendo a comunicare uno spessore umano ed attoriale che pur è ben presente nel dispiegarsi del plot.

Ma la vera pecca del film è la sceneggiatura. Quest'ultima presenta sì dei momenti di stanca e di macchinosità che pur di per sé non sarebbero così inficianti sul risultato globale se, come anche dichiarato dallo stesso Rubini, tutta l'impalcatura della pellicola non si poggiasse pesantemente proprio sulla fase di scrittura.
Il regista è così destinato ad elevarsi (La terra) o a cadere (Colpo d'occhio) a seconda dell'efficacia del proprio copione, sul quale si adagia quasi passivamente, non riuscendo a valorizzarlo e a farlo emergere più di quanto non meriti.
Ma la sceneggiatura si perde nell'ambizione di voler raccontare l'uomo e le sue pulsioni più nere e disperate in modo completo, quasi definitivo, disperdendosi in mille rivoli mai conclusi, costretta a cambiare a piè sospinto strada, sballottando i propri personaggi qua e là senza un vero, reale, costrutto. Si cade così nell'autoreferenzialità, accentuata dalla descrizione di un mondo, quello dell'arte, lontano ai più, e da una scelta musicale pomposa e invasiva.

Qua e là emerge il tocco non scontato di Rubini, soprattutto nella gestione degli attori e della loro recitazione, vero elemento portante, a partire dallo stesso personaggio interpretato dal regista, di tutta la storia. Purtroppo è poco per salvare un film che naufraga per uno strano contrappasso, sommerso proprio da quell'ambizione che, in qualche modo, la storia vorrebbe condannare.