Recensione Metropolis (2001)

Questo film, realizzato nel 2001, nasce da lontano, da un fumetto datato 1949 scritto e disegnato dal padre del manga moderno, Osamu Tezuka.

Una città di cartone

Questo film, realizzato nel 2001, nasce da lontano, da un fumetto datato 1949 scritto e disegnato dal padre del manga moderno, Osamu Tezuka. L'autore, non convinto fino in fondo della bontà della sua opera, si era sempre opposto a una sua "cartonizzazione", alla quale il regista Rintaro si era mostrato interessato fin dagli anni '70: molti anni dopo la morte di Tezuka, avvenuta nel 1988, Rintaro si è riavvicinato al progetto chiamando accanto a sé, per la sceneggiatura, Katsuhiro Otomo, uno dei più stimati e importanti autori di animazione giapponese (si ricordi di lui un titolo per tutti, Akira). I due, partendo dalla storia creata da Tezuka ma apportando alcune sostanziali modifiche, hanno realizzato un'opera complessa, visivamente potente, caratterizzata da un originale sintesi di due look molto diversi, in apparente contrapposizione tra loro: quello futuristico, mutuato dall'immaginario cyberpunk ormai in voga in decine di film (ma anche di opere di animazione, vedi lo stesso Akira o Ghost In The Shell), e quello più squisitamente retrò, sottolineato da un character design molto fedele al manga originale e in generale allo stile dei fumetti dell'epoca (personaggi bassi di statura, a volte sproporzionati nel corpo, espressioni facciali volutamente esagerate, un generale rifiuto di una rappresentazione realistica). Il futuristico e l'antico si incontrano e vivono fianco a fianco, in Metropolis: così, accanto ad uffici ultramoderni, palazzi avveniristici, autostrade sospese nell'aria, troviamo telefoni e automobili d'epoca, con il commento di un tema jazz anch'esso retrò e tuttavia incredibilmente d'atmosfera. Questo contrasto sta quasi a sottolineare il bisogno di un ritorno all'innocenza, di una riscoperta di alcuni, semplici, valori all'interno di una società ipertecnologizzata e basata sulle disuguaglianze e lo sfruttamento: un bisogno che si riflette negli occhi del piccolo Kenichi e nel suo nascente rapporto con Tima, nel mutuo conforto che i due, entrambi braccati ed entrambi, in modi diversi, "outsider", riescono a darsi. Tima è una ragazza robot alla perenne ricerca della sua natura e della sua stessa identità, con quel "chi sono io?" ripetuto ossessivamente, come un ritornello, fino alla fine: una ricerca problematica e mai portata a termine, neanche quando la ragazza, nel finale, con i terminali collegati al computer dello Ziggurat, sembra trovare infine il suo scopo: distruggere quanto è stato creato dall'uomo. Nella caduta finale i suoi occhi sbarrati sembrano infatti esprimere un terribile senso di tristezza e inadeguatezza, sintomo forse di un'anima umana prigioniera di un corpo meccanico, con quell'eterna domanda che fluttua di nuovo nell'aria, senza risposta. Il finale, davvero bello e di una forza visiva notevole, si nutre ancora di quel contrasto tra le due anime del film, tra terribili esplosioni e devastazioni che squarciano la città fin dalle fondamenta e un commento sonoro dal gusto retrò e molto dolce, che rende per contrasto ancora più sconvolgente ciò che vediamo sullo schermo. Una "catarsi" finale (che prelude forse a un nuovo inizio) non nuova per il mondo dell'animazione giapponese: basti pensare al già citato Akira di Otomo ma anche a un esempio apparentemente lontano dalle tematiche di questo film come Principessa Mononoke di Hayao Miyazaki. Nell'ultimissima scena, nella radio tratta in salvo dalla catastrofe, appartenuta a Tima e Kenichi, sentiamo di nuovo l'eterna domanda formulata dall'androide, quasi che la sua anima non abbia trovato pace neanche dopo la distruzione del suo involucro fisico: un tema, questo dell'eventuale presenza di un'anima nel corpo dei robot, presente per tutto il film, così come quello dello sfruttamento degli androidi stessi da parte di una società classista (suddivisa, anche fisicamente, in più "livelli"), che li ha resi poco più che schiavi, l'ultima tra le ultime classi sociali. Tematiche, queste, che da sempre affascinano chi produce fantascienza a tutti i livelli (letteraria, cinematografica, fumettistica), ma che hanno attecchito particolarmente in una società molto tecnologizzata, ma allo stesso tempo caratterizzata da un forte senso di alienazione e solitudine, come quella giapponese. A una natura fin troppo "umana" da parte dei robot, si contrappone la perdita di umanità di molti personaggi in carne e ossa: oltre allo stesso Duke Red, uomo accecato dalla sete di potere e dominio ma anche dalla scomparsa di sua figlia, le cui sembianze l'uomo ha voluto ricreare nell'aspetto di Tima, c'è da ricordare il personaggio di suo figlio adottivo, il giovane Rock: a capo delle squadre speciali anti-androidi, spietato, cresciuto e addestrato come una macchina da guerra, il ragazzo non riesce a sopportare che suo "padre" voglia mettere a capo del governo mondiale proprio un'androide, privandolo così dell'unica forma di "affetto" che gli aveva concesso a favore di una rappresentante della specie da lui più odiata.
Complessivamente, siamo di fronte a una pellicola intelligente, matura, visivamente accattivante e densa di contenuti di notevole spessore. Un'opera che non ha la stessa crudezza di altri esempi del suo genere (i già citati Akira e Ghost In The Shell), ma che ha in più una dolcezza, un senso di malinconia che la permea da cima a fondo, che è il risultato tanto della concezione "morale" delle storie a fumetti tipica di colui che l'ha ideata (Osamu Tezuka), quanto dei temi prediletti dal suo regista (Rintaro, che si occupò della "cartonizzazione" di due manga particolarmente filosofici e malinconici come Capitan Harlock e Galaxy Express 999). Abituati come siamo, dalle nostre parti, ad identificare l'animazione con i film della Disney, una pellicola come questa può lasciare sicuramente perplessi alcuni, ma può essere una piacevole sorpresa e (ciò che più conta) fonte di interesse e approfondimento per altri.

Movieplayer.it

4.0/5