Recensione Mekong Hotel (2012)

Dopo la Palma d'Oro di due anni fa, Apichatpong torna a Cannes con un'opera che conferma il fascino e la complessità della poetica del regista thailandese, ma che ne estremizza le premesse asciugandone ulteriormente il modo di girare.

Una ballata tra sogno, folklore e realtà

Il Mekong Hotel è un albergo sito sul fiume Mekong, che scorre nel nord-est della Thailandia vicino al confine con il Laos. Qui, vivono alcuni enigmatici personaggi le cui vite finiscono per incrociarsi: tra questi, una madre che scopriamo presto appartenere a una famiglia di fantasmi tailandesi che si cibano di carne umana (i Pob), la sua altrettanto misteriosa figlia, un giovane chitarrista che si innamora di quest'ultima e un suo amico. Sullo sfondo, il fiume che fluisce, lento ed ipnotizzante, a fare da silenzioso spettatore agli incontri casuali, dipanati in un lungo arco di tempo, tra esistenze in bilico tra realtà e sogno, apparentemente lontane e inconciliabili, eppure così irresistibilmente attratte l'una dall'altra.

Dopo la vittoria, a sorpresa, della Palma d'Oro con il precedente Lo Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, il regista Apichatpong Weerasethakul torna a Cannes con questo Mekong Hotel: una pellicola che conferma il fascino e la complessità della poetica del regista thailandese, ma che ne estremizza le premesse asciugandone ulteriormente (diremmo persino scarnificandone) il modo di girare; offrendo così allo spettatore un'opera programmaticamente anti-narrativa, che non concede punti di riferimento e chiede semplicemente un'adesione incondizionata alla sua idea ermetica e senza compromessi di cinema d'autore. E' difficile, in effetti, descrivere l'intreccio di un'opera che sembra pensata per rifuggire volutamente qualsiasi idea di spettacolarità o di semplice racconto per immagini, e che attraverso una serie di semplici dialoghi spazia dai sogni (e dagli incubi) dei protagonisti ai temi della politica, dalle leggende e dal folklore locale alle ansie dell'attualità (il film è stato girato dopo una grave inondazione subita dalle coste tailandesi), dalla necessità dell'amore alle difficoltà della sua realizzazione concreta.
Apichatpong, che ha girato il film utilizzando anche spezzoni di prove per un suo progetto mai realizzato (il fantasy-horror Ecstasy Garden) conferisce a Mekong Hotel un incedere lento e avvolgente, a suo modo placido come lo scorrere del fiume che fa da contorno alla vicenda. Il commento sonoro che accompagna per intero i 61 minuti di durata del film consta di due sole lunghe, scarne composizioni country/blues per chitarra, che contribuiscono ad avvolgere lo spettatore in un clima sognante, e che svolgono un po' la stessa funzione (a volte di sottolineatura, a volte di contrappunto) che l'accompagnamento musicale svolgeva nei film muti. E' singolare l'atmosfera onirica e in qualche modo rassicurante che la musica conferisce al film, anche quando sullo schermo sono rappresentate (e non mancano) sequenze di cannibalismo e violenza, anche quando i dialoghi tra i personaggi si spostano su temi duri quali l'immigrazione e la discriminazione delle minoranze. Apichatpong sembra dire allo spettatore di lasciarsi semplicemente andare al flusso delle sue immagini; immagini in sé poco attraenti, ma che, grazie al singolare clima creato dal regista, riescono ad amalgamarsi con la musica e i dialoghi in un insieme magari non immediatamente filtrabile razionalmente, ma comunque emotivamente molto efficace.
Non è certo facile, e questo va detto per onestà, approcciarsi nel modo più corretto a un film come questo, abituati come si è a un'idea di cinema (sia mainstream che d'autore) lontana anni luce dalla poetica di un regista eccentrico come Apichatpong; così come non è facile cogliere tutti i simbolismi offerti dalla sceneggiatura, così come i riferimenti all'attualità (e ai più recenti fatti storici locali) senza avere una discreta conoscenza della storia e della cultura popolare thailandesi. Quello che tuttavia si coglie, di una pellicola come Mekong Hotel, è il rigore della messa in scena e l'indiscutibile urgenza espressiva alla base del film, insieme a un fascino magnetico che, derivato dall'amalgama dei pochi elementi presenti, rappresenta ormai una costante nell'opera del regista tailandese. Cinema orgogliosamente fuori dagli schemi, quindi, ma che proprio nell'assenza di compromessi (e di concessioni allo spettatore) trova la sua ragion d'essere e uno dei suoi principali motivi di interesse.

Movieplayer.it

3.0/5