Recensione Quel che resta di mio marito (2008)

Il distributore italiano punta molto sulla linea politica anti-bushiana della Lange e del suo ultimo film, ma a piace vederlo come una gradevole commedia, che alterna momenti riusciti a qualche caduta di stile.

Un viaggio tra la commedia e la politica

Prendete Thelma & Louise. Depuratelo da ogni possibile violenza e implicazione "action" e aggiungete una terza inquilina nella Cadillac di turno.
Otterrete a grandi linee un'immagine approssimativa di Quel che resta di mio marito, prima distribuzione Teodora di un film americano e per di più pervaso da una vena ironica, portato quasi fortuitamente in Italia da una casa che solitamente ha a che fare con pellicole di nicchia, spesso dure e difficili da digerire.
Il motivo è presto detto: durante l'ultimo Festival di Cannes, i due patròn della casa di distribuzione si sono presi, per usare le loro parole, "una vacanza di due ore" per seguire Jessica Lange. Ed è scoppiato l'amore.

Così anche nelle sale italiane arriva questa avventura in salsa rosa, che schiera, oltre alla sue volte Oscar Lange, un terzo premio dell'Academy, quello di Kathy Bates, oltre a Joan Allen, anche lei candidata a ben tre statuette d'oro nel corso della sua carriera.
Morto il marito, cremato nel lontano Borneo, la Lange, insieme alle due amiche, parte per un lungo viaggio lungo la east-coast, per portare le ceneri al funerale, così come richiesto dalla figlia di lui, personaggio interpretato da Christine Baranski e dipinto come il più classico dei cattivi Wasp di una qualsiasi serie-tv degli anni '80.
Tutto ciò nonostante la promessa, fatta dalla moglie al defunto, di cospargerne le ceneri al vento in tutti i luoghi della sua vita, secondo il mantra che "mio marito apparteneva al mondo, non ad un luogo solo".

Partendo dunque dalla Lange, si è risaliti ad un discorso più complessivo, che tocca i temi forti della politica e di un certo approccio culturale nel cinema americano contemporaneo. Con il presupposto che l'attrice due volte Oscar non si è mai dedicata ad un certo cinema americano, inquadrato come conservatore e latore di un sentimentalismo facile e perbenista tipico dell'epoca Bush dai produttori, il taglio del film è apparso immediatamente discostarsi da quei canoni, interessando anche per questo il distributore che l'ha portato in Italia. Una lettura sociale e culturale dunque, che, a nostro avviso, si intravede appena nella pellicola, almeno ad un approccio "nostrano" alla questione.
In fondo la Lange incarna la figura gradevole ma un pò stanca di una hippy della middle-class, strappata quasi per caso ad una vita piacevole fatta da una casa confortevole, una macchina d'epoca ed una serie infinita di viaggi, per ritrovarsi on the road in modo consapevole ed un pò snob, soggetta anzitutto proprio a quel facile sentimentalismo dal quale, secondo le intenzioni del distributore italiano, ci si vorrebbe discostare.

Quel che resta di mio marito (tragicomica e un pò macabra traduzione dell'originale Bonneville) rischia di esser preda del solito equivoco di una lettura eurocentrica dei fatti statunitensi, che mal si prestano ad una categorizzazione da parte di una cultura che si basa e costruisce schemi di interpretazione del reale assai diversi. Ci piace pensarla più come una gradevole commedia, in cui tre grandi attrici si confrontano l'una con l'altra, tra momenti riuscitissimi e cadute di vario genere, ma sempre all'interno di quell'american way of life che mal si presta ad essere rinchiusa in stereotipi, più o meno conformisti che siano.