Un incubo tinto di giallo
Con questo film, datato 1964, Mario Bava codifica definitivamente quello che sarà un filone estremamente prolifico per il cinema italiano degli anni a venire: il cosidetto "giallo" all'italiana, ripreso e portato al successo nel decennio successivo da Dario Argento. Bava aveva già diretto, l'anno prima, il thriller La ragazza che sapeva troppo, che risultava tuttavia ancora legato agli stilemi del poliziesco "classico": con quest'opera, invece, il regista italiano trovò una cifra estetica personalissima, che avrebbe funzionato poi da modello per decine di imitatori.
Pur restando il film superficialmente legato ad un intreccio di tipo poliziesco, l'attenzione del regista è decisamente spostata sulla messa in scena e soprattutto sulla rappresentazione degli omicidi, le cui sequenze costituiscono il vero "cuore" del film. I titoli di testa, da questo punto di vista, sono emblematici: gli attori sono ripresi, immobili, accanto a dei manichini, come se fossero anch'essi delle marionette in balia di un perfido burattinaio, in questo vero e proprio gioco al massacro che Bava ha voluto mettere in scena. Nella costruzione da incubo delle sequenze degli omicidi, il regista dà un'importanza fondamentale alla fotografia: il direttore di quest'ultima Ubaldo Terzano, che aveva già lavorato con Bava in alcuni dei suoi film precedenti, "colora" ogni volta le scene più importanti con due o tre tonalità diverse (il rosso, il verde e il malva sono quelle più utilizzate), conferendo sempre ad esse un'atmosfera onirica e inquietante: è da ricordare, a questo proposito, la bella sequenza del secondo omicidio, con l'interno buio del negozio che viene illuminato, ad intermittenza, da un'insegna verde al neon, contrastata da una dominante tonalità malva che immerge il tutto in una sorta di incubo ad occhi aperti, sottolineato dall'attenta regia e dall'uso funzionale dei suoni. Questo particolare uso della fotografia, con il continuo "gioco" con i colori, verrà poi ripreso da Argento in due dei suoi film più importanti e visionari, vale a dire Suspiria ed Inferno: e non è un caso che, in quest'ultimo, Bava fosse presente sul set, seppure come addetto agli effetti speciali (tra l'altro non accreditato); non si fa fatica ad immaginare che, in quell'occasione, il regista ligure sia stato prodigo di consigli verso il suo più giovane collega. E' da ricordare, poi, nel quadro dell'importanza "iconografica" di questo film all'interno del suo filone, la definizione di un "look" di riconoscimento per l'assassino, che verrà poi ripreso da quasi tutti gli epigoni successivi: guanti neri, impermeabile e cappello, volto nascosto, in penombra quando non coperto da una maschera.
Gli omicidi veri e propri sono rappresentati con modalità insolitamente cruente, con una "graficità" sicuramente sconosciuta alla maggior parte delle pellicole realizzate in quel periodo: Bava sembra divertirsi a far morire i suoi personaggi in modi sempre più fantasiosi, rendendo l'omicidio il momento culminante (e catartico) di un'intera sequenza da incubo, e abbozzando già qui quella "fenomenologia del morire" che sarà poi ripresa ed estremizzata in un altro film fondamentale della sua carriera, ovvero Reazione a catena. All'attenzione data alla messa in scena e alla costruzione della singola sequenza, corrisponde un disinteresse (anch'esso tipico delle opere del regista), per l'intreccio propriamente detto, con personaggi e dialoghi poco credibili, e l'identità dell'assassino svelata "a freddo", quasi che Bava voglia ribadire con questa scelta il suo scarso interesse per i meccanismi del thriller "classico". Meccanismi che il regista si diverte a prendere in giro anche in un'altra bella sequenza, quella della borsetta abbandonata nell'atelier, nella quale Bava gioca con le attese dello spettatore divertendosi poi a deluderle.
E' da ricordare che questo film, spesso relegato, insieme a tutte le opere del suo regista, nell'ambito di un immaginario cinematografico "basso" e popolare, è stato citato da due dei più importanti registi contemporanei in due loro film: Pedro Almodovar ha montato alcuni spezzoni del film insieme ad altri frammenti di pellicole horror nelle sequenze iniziali del suo Matador, mentre Martin Scorsese, da sempre grande ammiratore di Bava, cita esplicitamente l'ultimo omicidio nella scena del massacro dei monaci buddisti ad opera delle milizie comuniste in Kundun. Riconoscimenti (e sono solo due tra i tanti) che stanno a ribadire, se ancora ce ne fosse bisogno, l'assoluta importanza di un regista che, nonostante la sua sfiducia verso il suo lavoro e i frequenti tentativi di autodemolirsi, occupa un posto fondamentale all'interno di una determinata (e bella) fase del cinema nostrano.
Movieplayer.it
4.0/5