Uberto Pasolini, uno 'Still Life' da applausi

Esce in sala il 12 dicembre il film dell'autore che all'ultimo Festival di Venezia si è aggiudicato il Premio Orizzonti per la regia e il premio Pasinetti assegnato dai giornalisti cinematografici, un'opera commovente dedicata ad un impiegato comunale che per mestiere rintraccia i parenti di persone morte in solitudine; 'Rifletto sull'isolamento, in una storia che pian piano è diventata anche personale', ha raccontato in conferenza il regista romano.

Fino ad oggi ha prodotto (Full Monty) e diretto (Machan - La vera storia di una falsa squadra) film corali, Uberto Pasolini, storie costruite attorno ad un gruppo di personaggi che con coraggio tentavano di rilanciare la propria vita; ora il cineasta capitolino (inglese d'adozione), cambia registro e concentra la sua attenzione su un solo protagonista, un omino in giacca e cravatta, uno straordinario Eddie Marsan, che lavora come impiegato comunale in un settore del tutto particolare. Il suo compito, infatti, è quello di rintracciare i parenti di persone morte in solitudine, per rendere il funerale meno triste di quanto non già sia. Da questo assunto parte Still Life, presentato all'ultimo Festival di Venezia nella sezione Orizzonti, dove si è aggiudicato il premio per la regia e il premio Pasinetti, consegnatogli questa mattina dalle mani di Laura Delli Colli, presidente del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici e ora in uscita italiana il prossimo 12 dicembre grazie a BIM (60 copie). Abbiamo incontrato il regista e assieme abbiamo parlato della storia e dell'incredibile fascino di questo questo personaggio che ha dimenticato sé stesso e i propri desideri, dedicandosi in maniera esclusiva agli altri.

Signor Pasolini, da dove è partito per raccontare la storia di John May? Uberto Pasolini: Tempo fa lessi un'intervista, su un quotidiano di Londra, ad una persona che svolgeva questo mestiere, mi sono incuriosito e ho cominciato una ricerca personale; prima di tutto ho contattato l'impiegato che è stato intervistato e per circa sei mesi ho seguito la procedura in due comuni molto poveri a sud del Tamigi. Ho visitato le case delle persone scomparse, ho presenziato a diversi funerali e a volte ero la sola persona presente e mi sono trovato a ricordare la vita di uno sconosciuto assieme al celebrante. Quello che vedete quindi è molto poco inventato; la signora col gatto è stato il mio primo caso; era una donna molto vitale fino ai 25 anni, poi è successo qualcosa che l'ha fatta cambiare, fino a portarla dividere la propria abitazione solo con un animale da compagnia. Anche le cartoline e le foto che si vedono sono vere, vedete, ho poca immaginazione, devo rubare alla realtà dei momenti che mi toccano in maniera particolare.

Sembra che questa storia l'abbia toccata davvero molto...
Forse perché il cinema per me è diventata una scusa per compiere ricerche sue realtà sociali diverse dalla mia; sono cresciuto in una situazione da privilegiato e il mio background non ha alcun interesse. Ecco, il processo di ricerca che anticipa la sceneggiatura è un'opportunità per scoprire qualcosa di completamente differente, vuoi il capofamiglia che ha perso il lavoro, e Full Monty da questo punto di vista era un film tristissimo, oppure, come in Machan, scoprire cosa spinga qualcuno a lasciare il proprio paese e venire in un mondo come quello occidentale che promette e non mantiene.

E in questo caso?
Sono stato colpito dall'immagine di un funerale senza qualcuno presente. Non so voi, ma io mi sono spesso chiesto chi verrà al mio funerale e questo mi ha portato a interessarmi di un tema come l'isolamento. Viviamo in grandi città in cui l'isolamento è prevalente a ogni livello, le famiglie non vivono più sotto lo stesso tetto, inoltre non si conoscono nemmeno i vicini di casa. Anche i giovani, che un tempo erano pronti a viaggiare, oggi vivono su internet amicizie virtuali e senza valore. Il film è cominciato quindi come ricerca sull'isolamento nella società occidentale ed è diventato pian piano una storia personale. Da quando mi sono separato da mia moglie, nonostante la veda per lavoro quasi quotidianamente (è la compositrice Rachel Portman, ndr) e quasi ogni giorno riesca a vedere le mie figlie, entro in una casa buia, vuota, silenziosa e questa cosa mi ha colpito molto. Se per me era tanto difficile questa cosa, cosa voleva dire per chi viveva così in maniera costante, tutti i giorni della vita?

Il personaggio di John May, così solitario e ossessionato da alcuni riti, è molto dettagliato nella sua caratterizzazione. Si è ispirato a qualcuno in particolare?
Diciamo che è la condensazione di due o tre persone che mi è capitato di incontrare in questo anno di lavoro. Ne ho conosciute una trentina, tutte molto pratiche e senza fronzoli, un paio di loro, però, concepiscono il proprio mestiere come John, ossia con un sentimento forte del valore umano, dedicando ai loro casi più tempo del dovuto. In fondo la loro missione è far sì che certe vite non siano dimenticate, regalargli un momento di ricordo e celebrazione, un commiato positivo. Quanto alle ossessioni del protagonista, però, quelle le ho messe io.

Nel suo studio sul campo, cosa ha avuto modo di notare?
Che nel 70% dei casi i familiari o gli amici delle persone scomparse non si trovano proprio, nel 30% dei casi si riesce a contattare qualcuno, ma anche in questo caso, molti sono quelli che non vogliono avere nulla a che fare con le esequie, per motivi di antipatia, rancori o semplicemente perché non si può sostenere un viaggio. Il celebrante, inoltre, celebra il rito anche in totale solitudine, recita delle parole e chiude la cosa in pochi minuti.

Il titolo del film ha tanti significati...
Sì, vuol dire vita ferma, immobile, che è quella del protagonista, ma vuol dire anche ancora vita, ed è la lettura più giusta per me.

Nonostante il finale comunque amaro...
Non ho mai avuto dubbi su come doveva finire il film, l'ho sempre trovato l'epilogo più giusto dal punto di vista tematico e drammatico, non potevo tradire la storia con un finale classico.

Com'è stato lavorare con Eddie Marsan?
Avevo lavorato con lui in un film di qualche anno fa, I vestiti nuovi dell'imperatore, in cui si favoleggiava di una nuova vita per Napoleone che fuggiva dall'esilio per vendere meloni a Parigi; ebbene, Eddie interpretava il ruolo del valletto di Napoleone, aveva sei battute e tre scene. Non solo ha dato una rotondità incredibile al suo personaggio, ma è riuscito a dare qualità umana anche all'imperatore. Era affascinante vederlo lavorare, per questo quando mi è venuta l'idea del film ho immediatamente pensato a lui; Eddie dà tanto facendo all'apparenza pochissimo, la sua recitazione è contenuta ma è forte emotivamente. In genere in Inghilterra è conosciuto per ruoli più drammatici e violenti, ma possiede generosità e dedizione al personaggio, a cui si vota con talento, sensibilità e maestria straordinaria. Sono stato fortunato.

L'emotività, forte ma molto trattenuta sembra essere una caratteristica di tutto il film...
Sì, è un film a toni bassissimi, tutto è sotto volume, c'è poca musica, i movimenti di macchina sono limitatissimi e le inquadrature sono simmetriche. La fotografia stessa è incolore e acquista vista e saturazione seguendo l'apertura del protagonista. E' questo il cinema che mi parla di più, non certo quello urlato. Facendo le dovute differenze, è stato Yasujiro Ozu a ispirarmi. Ho visto tutto quello che c'era da vedere del maestro, un autore che ha fatto capire che si può colpire lo spettatore attraverso una grammatica a volume basso. E' facile scuotere la platea con forza, esagerando con la storia, la recitazione, la colonna sonora, ma si scatenano emozioni facilmente dimenticabili, perché quello che vediamo non ci appartiene. La nostra vita è sotto tono. Certo, qualche spettatore si può perdere subito, ma sono sicuro che ce ne saranno altro che provano a fare più attenzione. E' in quel momento che entri nel loro subconscio e resti lì ancora per un po'.