C'è un passaggio nel film Risk del 2016 (inizio terzo atto per la precisione), in cui viene riportato un frammento di un briefing fatto da niente di meno che un membro della sezione "Insider Threat" dell'FBI, nel quale Laura Poitras viene definita come una "documentary filmmaker who is anti-US". All'epoca la regista americana aveva già vinto l'Oscar (era il 2014) grazie allo straordinario Citizenfour con al centro l'ormai famigerato Edward Snowden, ed è significativo che questa definizione si trovi invece in un film, che, a ben vedere, trova la sua collocazione reale come costola della pellicola precedente o, meglio, come punto di raccordo della sua filmografia. Forse il suo titolo meno riuscito a 360 gradi, per di più in conflitto con il suo protagonista, Julian Assange, cosa che, per la rigida costruzione delle storie della regista, rischia di vanificare il messaggio politico, da sempre l'elemento più importante del suo pensiero filmico. Soprattutto quando il conflitto si verifica a causa di sue caratteristiche personali.
Non è un caso quindi che sei anni dopo, alla 79esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, la Poitras si presenta con un titolo come Tutta la bellezza e il dolore (All The Beauty and the Bloodshed), con il quale vince il Leone d'oro (il secondo documentario in neanche dieci anni a trionfare al Lido dopo Sacro GRA del nostro Gianfranco Rosi). Una pellicola figlia di un riaggiustamento dopo quella soddisfazione a metà e anche della volontà di ribadire la veridicità di quella famosa nomea (non è un caso che il frammento audio "incriminato" sia stato inserito nel montaggio finale), magari indebolitasi. In altre parole, figlia della volontà di essere a tutti gli effetti una regista donna e antisistemica, prima ancora di una documentarista affermata - "Sarebbe bello che l'Academy togliesse la distinzione tra fiction e documentario: dovremmo concorrere tutti semplicemente nella categoria "miglior film" -, che sono poi le caratteristiche personali accennate poco sopra e anche quelle che hanno mosso tutta la sua vita professionale e non.
Nemica pubblica numero uno
Laura Poitras voleva fare la chef: ordine, rigore, equilibrio e creatività. Una professione difficile che richiede un grande spirito di sacrificio e un grande ordine mentale, misto ad una non sottovalutabile dose di spirito di iniziativa e di capacità ideativa. Tutte qualità che saranno molto importanti per il proseguo del suo percorso professionale e, osiamo aggiungere, della sua vita in generale, fortemente influenzata dalle rischi (Risk, non caso, è il titolo della pellicola con cui abbiamo iniziato l'articolo) delle sue azioni. Solo terminati gli studi e ormai all'alba dei trent'anni decide di trasferirsi a New York per studiare cinema. Racconta di avere incontrato Nan Goldin per la prima volta proprio durante quel periodo di approccio al mondo della Settima Arte.
La sua carriera cambia nuovamente in corsa, quando, recatasi in Iraq per raccontare l'occupazione e il processo elettorale del Paese dell'Asia occidentale, incontra un medico sunnita, che decide di seguire da lì in poi e dalla cui storia uscirà il suo primo documentario candidato agli Oscar nel 2006, My Country My Country. Quell'esperienza porta gli USA a vederla come un soggetto scomodo, tanto da inserirla nella lista di controllo del Department of Homeland Security (DHS) e da renderla obiettivo sensibile di diversi blocchi operati dalla sicurezza aeroportuale in occasione dei suoi spostamenti. Blocchi che ne condizionano tuttora i viaggi.
Il fatto di essere divenuta essa stessa una vittima del sistema porta la Poitras a ricercare figure "vicine" a lei per il proseguo del suo lavoro, tant'è che è in questo periodo che inizia a prendere contatti con due personaggi che cambieranno la storia della politica interna statunitense: il whistleblower per eccellenza, Ed Snowden, e la testa pensante di WikiLeaks. Sarà, di fatto, proprio in occasione delle riprese ad Honk Kong per Citizenfour che la regista comincerà a dividersi ancora di più tra Europa (Berlino) e USA per motivi di sicurezza. Non solo, proprio a suo dire, diverse delle accuse mosse ad Assange dopo i fatti del 2015 possono essere imputabili anche a lei.
Una vita al servizio della libera informazione e dello smascheramento di istituzioni e sistemi che, dietro loro dialettica retorica intrisa di libertà e giustizia, nascondono terribili scheletri nell'armadio, specialmente nei momenti visti all'esterno come i più democratici e miti. Non è un caso che sia stato il mezzo cinematografico il più efficace per adempiere a questo incredibile onere.
Tutta la bellezza e il dolore, la recensione: l'arte della giustizia
Non c'è distinzione tra fiction e documentario
Nella sua costruzione di storie la Poitras è senza dubbio un'artista.
Tutti i suoi film, infatti, accanto a delle testimonianze filmate inestimabili figlie di un fine lavoro giornalistico e che trovano sfogo in un immaginario molto tecnico (quasi scientifico) in riferimento alla tematica di turno, affiora sempre una prospettiva molto vicina alla grammatica della fiction, dunque passando, in primis, per i personaggi. Il che non è assolutamente una diminutio in riferimento al suo operato, anzi, bisogna essere molto abili nella capacità di improvvisare nel mentre e di riorganizzare poi, dato che le vicende in essere e che in più hanno come protagoniste persone e non sistemi portano a risvolti che immaginare a priori è impossibile.
Laura Poitras lavora sulle increspature, sulle crepe, sulle ombre, sui punti sensibili, su ciò che è celato e lo fa sia quando si rapporta ai personaggi che sceglie di seguire sia in riferimento alle istituzioni sui cui punta (attraverso di essi) la lente di ingrandimento.
Iniziare un percorso sempre con questa prima condizione del modus operandi è una spada di Damocle, che, nella costruzione della narrazione, rischia di far saltare il banco in ogni momento, dato che pretende una vicinanza tale da essere, fondamentalmente, coinvolti in prima persona insieme alle persone di cui si filmano azioni e pensieri. Eventualità che porta inevitabilmente a stabilire dei veri e propri legami di militanza, che è una cosa rischiosissima perché, come nel caso di Assange, può portare a cambiamenti improvvisi, anche radicali, rendendo difficile raccontare una storia coerente e efficace. E tutte quante le pellicole della Poitras sono strutturate come un racconto di fiction, in cui c'è un'istituzione da combattere e un martire che per le sue azioni viene perseguitato, ma che, nonostante ciò, continua la sua battaglia.
Per questo bisogna scegliere bene i propri compagni e forse per questo, dopo quasi 7 anni e il difficile rapporto con l'eminenza grigia (o bianca) di WikiLeaks, la Poitras è tornata alla ribalta con un progetto come Tutta la bellezza e il dolore, un film che sembra veramente frutto di un sodalizio artistico e politico che prevede il racconto autobiografico della vita di Nan Goldin in cambio della testimonianza dell'attivismo del P.A.I.N., il gruppo fondato dalla fotografa per combattere la famiglia Sackler.
Una comunione di intenti chiara, trasparente e senza rischio di sorpresa. A parte da coloro che ti seguono sotto casa o controllano le tue telefonate. Insomma, il rischio calcolato, sempre quello con cui abbiamo aperto l'articolo.
Il dovere di una cittadina americana
L'obiettivo della Poitras, anzi, la sua missione, quasi sacra, è quella di raccontare gli Stati Uniti post-11 settembre. Un evento cataclismatico per il Paese più potente (anzi no) del mondo, paladino della giustizia e della pace e che invece tramite i suoi organi (NSA e Antiterrorismo, per esempio) compie ogni tipo di abuso, minacciando la libertà individuale dei cittadini.
Tutta la bellezza e il dolore è per forza di cose schiacciato da questa volontà ferrea che è andata man mano affermandosi durante la carriera di una regista che sta facendo la storia del cinema americano soprattutto per quanto riguarda l'elevazione della sua capacità investigativa e giornalistica, sfruttando tutti i vantaggi dello storytelling.
La vicenda personale della Goldin è un tentativo di ritorno ad un'idea di ricostruzione artistica più pura, ma i momenti di maggior coinvolgimento per le due protagoniste (la Poitras, lo avrete capito, è sempre da contare) sono quelli riguardanti l'attività politica del gruppo, in cui sembra di vedere un controcampo di una serie come Succession piuttosto che un documentario vero e proprio. Questo nonostante la potenza del materiale umano, sempre presenta nei lavori della regista, ma anche sempre smorzato, pure qua, in un modo diverso.
In breve, le parti presenti in Tutta la bellezza e il dolore in cui troviamo l'infanzia della Goldin, compresa la vicenda della sorella, la maledizione che ha gravato su di lei per anni e la sua liberazione attraverso quella squinternatissima comunità che le ha salvato la vita, nonostante il loro incredibile bagaglio emotivo (ripescato chirurgicamente quando serve), sono raccontate soprattutto per il loro eco politico straordinario, con il rischio di lasciare in sottofondo il resto. Il rischio, Risk, ancora quello, il rischio che si deve assumere una cittadina (citizen) americana, il cui dovere è, a scapito di qualsiasi altra cosa (compresa se stessa) è di non voltarsi, non tacere e non esimersi mai dal denunciare un sistema non chiaro, pericoloso e ipocrita. Per amore di se stessi, per amore dei propri cari, per amore di chi, come lei, in quel sistema ci è nata.