Il detective Hays ce l'ha con Dio. Stando alle sue parole cariche dell'ormai familiare disillusione, quel famoso settimo giorno il Creatore non avrebbe dovuto riposarsi. Quel famoso settimo giorno Dio avrebbe dovuto finire il lavoro e fare le cose come si deve. Così non è andata, e da quel fatale riposo divino è nato il Male assieme alla sua inevitabile scia di tormenti, dolori e pene. Non sarà maledetto e nichilista come il collega Rust Cohle, ma questa amara riflessione di Hays è forse la morale della torbida fiaba raccontata da True Detective 3x06. Denso, teso e rivelatorio, Hunters in the Dark manda avanti con cura e decisione la maledetta indagine sul caso Purcell. Un caso che sembra aver dato inizio a un inarrestabile effetto domino di morte.
Dal 1980 in poi tante delle persone coinvolte dall'uccisione di Will e dalla scomparsa di sua sorella Julie sono decedute, svanite nel nulla oppure consumate da dubbi e sensi di colpa. I detective Hays e West fanno parte dell'ultimo club, quello in cui si sono iscritti due uomini che non riescono a fare pace con la propria coscienza. Così, anche da acciaccati 70enni, decidono di ritornare in sella armati soltanto di spade affilate perché dello scudo non sanno più che farsene.
Se stiamo usando una metafora "cavalleresca", è perché True Detective 3 sembra assomigliare sempre di più ad una fiaba nera dove bambini persi nel bosco, castelli e cacciatori vanno a formare un intreccio nodoso in cui la serie HBO inizia a fare finalmente luce. Senza dimenticare le solite nubi che si addensano dentro gli occhi del nostro investigatore arrabbiato con Dio.
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I dolori del vecchio Hays
Cacciatori nel buio. Così recita il titolo del sesto episodio di True Detective 3. Un titolo che si presta a una doppia interpretazione: quella che si schiera dalla parte del Bene e quella che sta dalla parte dei cattivi. Un titolo manicheo in cui i "cacciatori" possono essere sia Hays e West che i predatori dell'innocenza, gli aguzzini dei fratelli Purcell, i cacciatori a cui stiamo dando la caccia. Dopo sei episodi, però, molti indizi sono diventati certezze. Tra queste c'è la grandiosa abilità di Nic Pizzolatto, capace di legare alla perfezione sia il racconto dell'indagine che il ritratto di Wayne Hays, l'unico, vero detective di questa stagione. La prima dello show HBO incentrata soltanto su una sola persona. In Hunters in the Dark è quasi paradossale ritrovarlo giovane, nel 1980, quando dice alla sua futura moglie che la guerra gli ha insegnato a godersi il momento, a vivere "qui e ora", senza rimanere invischiato nel passato. Così non sarà. Per niente. Hays nel suo passato pieno di rimorsi ci sguazzerà per tutta la vita. Nasce così un personaggio sempre altrove, impregnato di pentimenti e avaro di affetto nei confronti della sua famiglia. Una sfumatura caratteriale evidenziata da questo sesto episodio in cui il vecchio Hays ammette di aver percepito casa sua come una gabbia da cui fuggire per poter dare libero sfogo alla sua instancabile voglia di giustizia.
Perché solo chi si sente in colpa per qualcosa ha così tanta voglia di fare del bene. Un istinto che diventa pura ossessione per un uomo sempre imploso, per un uomo che soltanto da anziano consiglia a suo figlio di non seguire il suo esempio: di non trattenersi, di esprimere quei sentimenti repressi da un padre e da un marito arido. Come una legge del contrappasso, allora, il detective Hays, da sempre avvinghiato ai suoi ricordi, da anziano deve combattere contro la sua memoria claudicante. Ad aiutarlo, da fedeli alleati, il collega West (anche lui affamato di verità) e un senso del dovere grande almeno quanto il suo senso di colpa. Perché la superficiale fretta con cui nel 1980 il caso fu archiviato (con la condanna di Woodard e l'annuncio della morte di entrambi i fratelli Purcell) avrà anche rassicurato la comunità ma non ha mai finito di tormentare l'animo inquieto dell'uomo che non si riposerebbe nemmeno il settimo giorno.
Nel fango del castello rosa
C'era una volta un buco nel muro di una stanzetta. Un buco che era diventato un tarlo sin dal primo episodio della serie. Chi spiava i fratelli Purcell? Il cugino di mamma Lucy o papà Tom? La settimana scorsa ci eravamo sbilanciati sulla questione, ritenendo troppo banale che il marcio di True Detective fosse una violenza domestica. Adesso abbiamo capito che quello "spioncino" era utilizzato come piccolo foro in cui Julie e Will si passavano fogliettini con dei messaggi per rassicurarsi a vicenda. Per cui è confermato che casa Purcell fosse un ambiente malsano e infelice, perché abitato da due genitori profondamente instabili. Da una parte una madre tossicodipendente, dall'altra un padre che, per quanto possa sembrare colpevole, per ora ci sembra un'altra grande vittima di un atroce disegno più grande di lui. Un padre, Tom, di cui scopriamo un grande segreto: un'omosessualità repressa, ripudiata, nascosta. E allora che ecco che casa Purcell assomiglia sempre più a un bosco asfissiante da cui due ragazzini vogliono soltanto fuggire come Hänsel e Gretel.
Tra le tante rivelazioni di Hunters in the Dark, che ormai ci conferma la sopravvivenza di Julie, c'è anche una nuova, losca figura che irrompe nell'indagine: Harris James, ex poliziotto che ritrovò lo zaino di Will nel 1980, ora diventato un ricco capo della sicurezza dell'azienda in cui lavorò Lucy. Da qui inizia una lenta discesa nell'oblio, in cui scopriamo che il castello rosa tanto decantato da Julie è stato teatro di eventi indicibili, tremendi anche solo da immaginare. E allora, forse, la piccola Purcell è arrabbiata con suo padre (ammesso che lo sia davvero) non tanto perché le ha fatto del male, ma perché non è riuscito a proteggerla dal male di quella foresta. Perché i bambini credevano, credono e crederanno sempre che casa loro sia un regno felice in cui nessun cacciatore potrà mai far loro del male. Ma questo è True Detective. E il settimo giorno Dio si riposò.
Movieplayer.it
4.0/5