L'ansia, le disattenzioni, le prospettive, e pure la certezza di procrastinare, perché tanto la libertà bisogna guadagnarsela sacrificando le responsabilità. Meglio restare immobili, fermi. Come i ruderi delle civiltà passate, tornate ad essere parte di una natura che non ci aspetta, ma avanza. Del resto, il futuro può aspettare. Minuto dopo minuto, ci rendiamo conto che Troppo azzurro di Filippo Barbagallo equivale alla revisione contemporanea della poetica naif del primo Carlo Verdone, di Troisi e del primo Nanni Moretti. Sì, lo sappiamo: il paragone è ingombrante, spigoloso, carico di attesa. Eppure, da qualche parte il cinema italiano dovrà pure ripartire, mica si può sempre inseguire. Deve attualizzarsi, deve rinnovarsi, probabilmente deve anche alleggerirsi.
Spassionatamente, l'esordio di Barbagallo, classe 1995, riesce in questo senza stravolgere il pane (supportato dalla supervisione artistica di Gianni Di Gregorio), ma puntando all'essenza di una storia come tante (ma non per questo banale), come se fosse l'organico frutto di "una conversazione fra amici", giusto per citare il regista (o forse dovremmo già scrivere 'autore'?). Una conversazione, appunto, divenuta manifesto cinematografico di un pensiero genuino, pigro e svagato, che nasconde la precisa ambizione narrativa, e quindi una chiara autorevolezza. Ambizione e propensione, e la voglia di sdrammatizzare, che tanto di tempo ce n'è ancora. Solo che il tempo stringe, e l'estate - quella reale, e quella simbolica del film - non dura per sempre. Anzi. Corre veloce, e sfugge come è sfuggito il treno dei desideri di un protagonista incredibile nella sua meticolosa e irresistibile riconoscibilità.
Troppo azzurro, la trama: il treno dei desideri, che all'incontrario va
Del resto, Dario (interpretato dallo stesso Filippo Barbagallo), il protagonista di Troppo azzurro, siamo ipoteticamente noi. Siamo noi quando resta a dormire fino alle 10, e siamo noi quando il sarcasmo aiuta a spezzare la tensione. Siamo sempre noi quando sale l'indecisione, e rigirarsi tra le coperte aiuta, sperando che la scottante decisione venga presa da qualcun altro. Rimuginare, procrastinare, aspettare. Dario ha 25 anni, e di crescere non ha intenzione. È indeciso su tutto, anche su come passare l'agosto romano, tenue e decadente nei colori pastello della granulosa fotografia di Lorenzo Levrini, che ricorda guarda caso il cinema italiano anni Ottanta. Che fare? In vacanza con i suoi (Valerio Mastandrea e Valeria Milillo) oppure con l'amico di una vita, Sandro (Brando Pacitto), tra PlayStation e birrette?
Però poi il caso ci mette la zampa: incontra Caterina (Alice Benvenuti), mezza siciliana e mezza romagnola, in subaffitto a Roma. Caterina è la bellissima e irrinunciabile normalità. Si frequentano, vanno al museo, fanno l'amore. La cosa si fa seria, anche perché Caterina deve tornare a Rimini. Dario vorrebbe seguirla, solo che... solo che è meglio restare a dormire. L'estate prosegue, e Dario salta di fiore in fiore, finendo con Lara (Martina Gatti), la ragazza "irraggiungibile" che ha sempre adorato. Solo che Lara è l'opposto, è il disordine che rompe la comfort zone. Dario non è pronto, non se la sente di prendersi una responsabilità emotiva. E in fondo lo capiamo pure. A letto si sta bene. O no?
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Il cinema come piace a noi
Ripensandoci, Troppo azzurro è ancora meglio di come l'avevamo immaginato. È meglio perché nella poetica di Barbagallo ritroviamo frasi, parole, dettagli e momenti buffi che, in qualche modo, abbiamo avuto la fortuna di vivere. Non è mai facile raccontare la contemporaneità, eppure il regista si approccia all'immaginario dei (quasi) trentenni ironizzando sulle nevrosi e sulle ossessioni, come fece quarant'anni fa Carlo Verdone agli inizi della carriera (Maledetto il giorno che ti ho incontrato è un chiaro riferimento). Barbagallo ha la faccia giusta per essere attore splendidamente canonico, e non ha paura di scendere nell'umorismo astratto e raffinato, frammentato nella naturale esistenza di una sceneggiatura marmorea. Tecnicamente ineccepibile (ma avremmo da ridire sulla soundtrack, furbescamente si sarebbe potuto ammiccare di più), Troppo azzurro prova ad essere un comprensibile libretto delle istruzioni, aiutando nella più plausibile delle quotidianità, facendo diventare puro cinema quei frammenti di vita che pensavamo persi per sempre.
Invece, grazie ad un film cordiale ed ironico (la mano di Gianni Di Gregorio è una garanzia), finiamo per ritrovarli, riconoscendoli come se fossero i nostri, sospesi tra una smorfia e un sorriso. E che Filippo Barbagallo sia un (im)previsto storyteller lo capiamo anche dallo spazio lasciato ad Alice Benvenuti e Martina Gatti. Il casting di Giulia Fusaroli non ha sbagliato un volto (Brando Pacitto, per esempio, è il classico amico che fa da spalla sorniona), anche perché sono le due attrici ad indirizzare la sceneggiatura di Troppo azzurro, spostando sensibilmente le turbe di Dario (come avveniva nel primordiale cinema di Moretti e Verdone), dando loro un senso e una profondità. Ecco, Caterina e Lara rappresentano l'alterazione, l'eccezione, il treno da prendere (o da perdere); sono lo schiocco della vita, il pretesto per crescere. Forse non adesso, forse nemmeno domani. Prima o poi, un passo alla volta. Sbagliando senza imparare. Perché è bello così. Per tuffarsi c'è tempo, la vita può aspettare. Tutto ciò è Troppo azzurro di Filippo Barbagallo. Altro che esordio, questa è alta scuola.
Conclusioni
Come scritto nella recensione, Troppo azzurro di Filippo Barbagallo segna l'esordio alla regia di un regista ad altissimo potenziale. Mischiando Nanni Moretti a Carlo Verdone, Barbagallo delinea un'opera semplice, genuina, ironica, che fotografa in modo perfetto l'idea di una generazione alla ricerca di un posto nel mondo, nonché a disagio con l'idea di dover crescere.
Perché ci piace
- La naturalezza.
- La competenza registica.
- Alice Benvenuti e Martina Gatti, che brave.
- L'umorismo garbato.
- La sceneggiatura.
Cosa non va
- Forse manca una soundtrack efficace.